7 novembre 2014

Com'è che accadde


Una pausa imprigiona più contenuti.
            Il bianco
 – e tutto il chiaro in genere –
incorpora lo spettro e lo evolve a statua di luce.
La luce si adatta alle giravolte dei fogli.
            Mi ha scelto
Rosa da un mazzo di giorni.
Giorni incensurati, con la fedina immacolata,
al primo dito utile.
            Giorni in cui lo spazio non contava,
a differenza degli anni, che sono lunghi
per il virtuosismo astrale. Ma stretti,
nella consuetudine di misure sommarie;
quindi lo spazio va dove si tace.
            Nel silenzio
gli spettri stanno come talee,
il rumore è la loro fioritura.
Per  lo spazio, nel mio giardino eri una torre.
            Come l’amore
è l’altissimo sentimento che vertebra le vene,
disse Rosa, come l’amore o il traffico in strada.
            Un meccanismo pirotecnico
trasforma il calore in moto; una corda,
l’aria in suono; le sue parole cambierebbero ora.
            Rosa non sapeva tutto questo:
venne a dicembre quasi che il freddo
sia vuoto, e lo è, solo che il vuoto è seccante 
e non comprende la neve.
            In silenzio
l’amore si arricchisce di sensi; perché allora,
stupido io, avevo letto appena l’orario
dei treni e annunciavo una partenza?
            Gli annunci
attraversano gallerie normalmente taciute
con un sibilo che scaraventa la bocca
nel rumore delle stazioni. Sulla guancia
vibra la ruga del vento: lì si apposta la voce.
            Salì l’impazienza
e fu data pioggia. Venne anch’essa
per trasformare le pensiline prive di passione.
            Serve un paradigma del nero
adatto all’umore di questo tono: la stanza
lasciata alla polvere che urla al ricordo trattienimi.
            Ora faccio un gesto
più chiaro: faccio il gesto della porta,
faccio quel gesto di chi esce al mondo.
            Vuol dire
di più non posso. Dice ci provo e non torno.
Parlerei per giorni se potessi divellere i gesti
dalle porte. O, se l’alfabeto fosse un bosco,
             il cuore che sfoglia.

2 novembre 2014

Dallo stesso lato dell’orizzonte




Il desiderio è un uccello di rovo
appare in un cespuglio di vene
mentre la spina inflessibile pianta
la consuetudine a riposo.

Non credo all’esposizione
del sangue miniato, né pratico
la convergenza di "sto godendo e tu?" – in vero
sottostanno alla donna dei baci.

Tu sei popolata di perfetti emisferi:
isola l’occhio, confina lo sguardo a te,
e già che ci siamo, andare da una spalla all’altra
significa visitare un continente.

Te ne rendi conto? Ho viaggiato
non solo per questo parallelo: l’oceano
per quanto ampio si prende con le mani
e lascia gocce come coriandoli bombati.

Un cargo umano entra nella darsena,
dai ponti nessuno saluta la costa,
nessuno sventolerebbe fazzoletti di carta,
mentre da riva tutto si alza avvicinandolo.

Poi vieni serena e il desiderio era la spina,
potevo poggiarmi odorarti toccarlo sentirti
tacevi seduta tra le cose già infilate
nella tua assenza, una collana con oggetti finiti
nei posti occupati da sempre.

È il vuoto e la luce che danno coraggio  
alla casa di pensarsi ogni dove. Le pareti
si abbattono senza andare giù, la polvere
non si alza, dorme piena di sole e un sentiero
entra nel vivo delle curve come un ago
nel tessuto strappato dalle spine.

Avevi una bicicletta rosa,
tanto rosa che le spine erano raggi e le ruote
due lune eclissate nell’asfalto. Al semaforo partivi
prima del verde, sorprendendo il rosso dei passanti:
non c’è colore che non ti chiami furore
ma per quanto ti avventi il futuro
è già presente altrove.

Un idrovolante a pelo d’acqua si prepara all'incendio,
il gabbiano piega di lato il capo e non capisce
la rigidità del metallo che imita la sua planata.
Il rumore assordante ci fa atterrare in questa stanza.
Piegati dallo stesso lato dell’orizzonte.