12 febbraio 2016

Pre visione di avaria

Immagini dal web (elab. ferdigiordano)

  
           Si interra l’erba 
che fece da coperta alla brusca nudità del solco: 
come riconoscere adesso il verde? Dove si trova 
un salto, una capriola, o il capriolo che la fece sua? 
Sul vetro affronto una specie di ulivo costiero,
vedo e sento e calpesto semi, presso una mistura
di olio e sale e voce a velo che tu prendevi
            per la neve.
            Qualsiasi incubo
ora è più spesso: nebbie, cappotti,
scarpe, cordogli, gli amici inguardabili,
accasati nel tempo, adesso per allora,
allora non per adesso: adesso isole di legno,
inconsapevoli di galleggiare, inauditi, guasti.
Per settimane dura l’avaria del tepore: credetemi,
credimi signora Franca, è tutto dovuto al manutentore
del gelo. Certo, usiamo l’impianto degli occhi
per una sporadica ricerca dei volti a vuoto,
siamo cauti a distanze ragionevoli, azzardiamo
quando il freddo è nell’aria e non aggiusta
            che passi.
            Il paesaggio
indotto nel vetro, vetro che più si riduce più versa
in basso i rami. I miei fanno olive salate e semi
come neve, lassù, una bianca misura a volte prende
e chi ci sente, ed è vero, avvia l’elica del pensiero: 
un battello il cielo, rema il vecchio vento, pieno di verbi secchi
            e riflessi lenti.
            Il freddo ingrassa,
trova la mia figura e se ne impossessa
– un motivo ricorrente per volontà del luogo.
Dai il tuo nome al diritto della memoria
di radicarsi nelle invocazioni, intanto spiego
le vele ai suoi semi: sappiate, piccoli, che l’idea
matura da poco e il meccanismo la genera
da un accidente villoso, malmesso in genere,
bizzoso e irascibile. Un seme eclettico,
per una parte egemone, per altro servo,
e per di più coevo dell’inferno, delle lave
e di quanto espulso fece
            questo ambiente.
            Questa storia
è antecedente ai secoli innumerabili, agli angeli
consueti o persi, alla previsione che ci saremmo stati.
Semi, appunto, fra zolle piene di verbi striscianti, pericolosi.
Una sorta di paradiso al portatore.


6 febbraio 2016

Lessicomachia universale

Immagini dal web (elab. Ferdigiordano)


Ne avevamo anche quintali, quindi eravamo di peso.
Quintali di sicumera. O, come dice il devoto: spocchia,
supponenza, pistoni a vapore. Per la parte voluta
calati in una posa di scena. Posti a sedere, giudicammo.
Nessuno ce ne aveva parlato. Lo scoglio era lo stesso canto.
Nel paese le sirene sono sulle labbra di tutti e i denti
cadono nel tranello del bacio. Dicono che questa sia
la parola quando accade. La parola osso in bocca al cane.
Siamo legati al vento. Panni che si asciugano, in breve.
Il verbo continuare fa di noi quello che vuole e ci viene
assegnato un tempo rischioso, dalla mafia degli orologi.
L’inconsolabile lettore portò le braccia al petto come
per difendere il suo etimo, le trasformò in chele.
E da granchio, si spostò sul fianco. Non poteva
che avanzargli la spalla, una quinta di persona, tanto,
forse un caso, certo non avrebbe perso la faccia.
Lasciò scorrere il fiume nel suo verso sentendosi al riparo,
trovò l’ago nella legge, il pagliaio delle voci disperse.
Sollevò un vespaio. Stette incolume la spocchia immemore,
orba di tanto filo, così percorsa, attornia la Terra, all’aria sta.
O si trattava di ricucire lo strappo tra diverse lingue. 
                                               Se in quel momento 
un uragano, o un colpo di tosse dal fondo, avesse scosso  
le belle figure tratteggiate, più che la voce nel miraggio,
da lassù si sarebbe visto come si incazza la platea,
per tanto, poco.

2 febbraio 2016

All'inizio del giro



Piano piano mi accorgo che sono nato
in un luogo specifico e non ovunque.
Nessuno viene escluso da tanta precisione.
E anche voi, passati a dir poco in cielo
dov’era opportuno vedeste la luce.

Tra tante pareti, una sola porta-finestra
dava sul ballatoio; di là il santo sotto
la cupola appariva rubato al mare,
privato della rena, in cambio dell'aureola e
una lanterna diafana sul carapace di maiolica.

Alle volte il mosaico si rivolge al cielo e dii
concavi rispondono di riflessi liberi, dentro
l'atmosfera unisce vaghi tenori allo stesso tempo.
A me capitano ricordi di salnitro: il primo quinquennio
infarinato, olio di sana pianta, alici, fritte già nelle reti
capienti, roche per la lunga attinenza alle voci.

Dunque si trattava di avere fegato per
mettere al mondo un filetto d’uomo ai pesci.
Nella città vicina, il latte invocava il sorso a più bocche.
L’equilibrio era affamato di vita senza averne bisogno
ma qui sopra i tetti godevano le costellazioni e c’erano fughe
di soppiatto dalle tegole.

                        A tutt’oggi si precipita, dal santo.