con il timbro giusto.
Si evitino i “non è più tra noi”
mentre sta ancora lì in
un sangue sopravvissuto
o nel racconto di come
batteva i denti durante il sonno.
E poi il fiore
all’occhiello: la perla del bacio sulla fronte
quindi la seduta dei
convenuti che spiegano i resti,
il pianto copioso da
uno per tutti, tutto per uno
dei bei tomi da riporre
nella biblioteca dei vissuti.
Come quei libri che si
chiudono, mai completamente aperti,
neppure letti da tanti
comunque consunti dai congiunti.
La procedura è quella
dell’effetto Droste: il corpo
viene rappresentato in
un corpo ben messo situato
nel corpo che amiamo
immaginare. Riferiamo
della morte l’espianto
di forza da un muscolo universale
che a lui torna, intrinsecamente
consapevoli che non potrà
esserci ridata la corda
del respiro, quella che tira su,
eppure è ancora lì la
nostra mano
che vuole sollevarci.
Morire non è come
partire. È certo restare,
come si deve in una
classe. Giusto il tempo
perché gli elementi
ricompaiano nell’ala
del palazzo immaginario,
lasciando il monolocale
alle spalle, quasi che
la leggerezza della scomparsa
debba distribuire parti
con lo spirito adatto.
Allora, ecco: gli
occhi, fino a poco prima manifesti
dello spettacolo, adesso
recitano da attori consumati
il sonno sovrumano: è
possibile da ora in avanti
interpretare l’uscita
di scena con parole sconcertanti
che amo:“sa quello che io non so, / che questo è tutto
che amo:“sa quello che io non so, / che questo è tutto
un sogno./ O lo è
questo o lo è quello / ancora non ho capito bene.”
Viene facile a galla
la straordinaria
somiglianza della morte con il fondale:
sai che su di esso si
posa questo mare, ma non puoi stabilire
da fuori se vi
camminerai. Intorno, le rive svelano
che alla base
dell’acqua c’è tanto di umano da considerare.
Si muore solo
localmente, se davvero c'è
Immagine dal web
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