10 novembre 2018

La parola funziona a pennello



Il mondo che spesso disegno figura
con cancellazioni di corsa: sono ad arte
un crisantemo: uso parole e fingo
lo stesso pigmento di una rosa nuvola.
Uso questa via, che è un non luogo
a procedere vuoto, sulla marina priva di grafica,  
ma con qualche scarabocchio rimasto.
Uso e raggranello congiunti a me come braccia,
gambe e sale al viso una, due, più
uso la volta sulla risacca ripetuta
più arriva ricca di suoni all’orecchio
una vecchia voce di altra natura,
in lungo e in largo ombre in terra.
Cuore dell’onda batte curvo
come lo tocca il vento mi schizza:
non è spigoloso ma pieno di spilli
appunto.


Immagine: opera di Francesca Di Lauri - per gentile concessione dell'Autrice.

7 agosto 2018

Apprendimento del verbo solo




Giorno 1
Prendo tutto il tempo per aprire gli occhi.
I muscoli stentano nella tenebra: chi porta chi
colloquia con la pupilla strabuzzata.
Quando la vespa si è poggiata su di me, la città
non ha proferito parola, pochi curiosi intorno.
Solo quello.


Giorno 2
I muscoli vanno a nozze con un gesto
semplice, la voce - rendo grazie all’eco -
è quel sasso levigato che salta all’orecchio,
è il gioco del rimbalzo sullo spavento,
o grida: la gamba è gonfia, il sangue tuona!
Solo questo.


Giorno 3
La parola è la pietra più fluida: una su l’altra
si adatta per costruire templi, ripari o forni.
Ricavata dalla gola nella quale affonda
diventa un siluro, una torpedine nel ventre.
L’esplosione coglie la mente in piena pancia.
Il dolore è almeno stronzo benché ne esca bene.
Non solo qui.


Giorno 4
Penso che masturbarsi, manipolando il verbo
nel gergo comprensibile a più letture, produca
sementi di vuoto, salti, distorsioni,
una breve scossa, il fremito e brezza.
Mi vedo con soddisfazione di polso.
Guardo i segni dell’incidente come un faro.
Solo adesso, non prima del solo.


Giorno 5
Le parole sono vele inutili
se l’anima è in perfetta quiete.  
Ho visto la mia bocca affondare
in un discorso, e dietro, un cormorano.
Il becco segue un pesce vistoso
solo se è il più prossimo. L’orecchio
non vola affatto, come il tatto e l’ombra.
Guarisco già con un altro sintomo
del ginocchio colpito: si piega ancora.
Ancora e solo.


Giorno 6
Mi sollevo e il davanzale cade fuori
da tanto tempo che il panorama conta.
Il voto delle narici elegge il respiro
a tagli di voce. La bocca d’oro, il crisostomo
finito in lamenti, petulante e importuno
serve poco per tenere fronte: alla data, al sonno.
Dovrebbe essere il contrario, ma date tante
croste, il mio corpo assolda fitte schierate
già al minimo movimento.
È solo che non finisce, né finirà a voce.


Sempre
meglio, ed anche conveniente sui fianchi,
qualsiasi luce passi dalla sua orbita
alle tue.
Dalle due
colgo il riso fragile: anche solo.

Immagine dal web

26 luglio 2018

E sterno in campo aperto



Un uomo coltiva vecchi ritornelli
per sopportare l’amore privo di frutto.
Questa canzone stona tra i denti
(la cassa armonica della corda vocale
passa sull’ex verde come un rastrello).
Stona sullo stelo che pizzica
e sul tronco, ma non importa:
sono un tanto felice a squarciagola.   
L’amore è davvero contundente.
La ferita ultima mente procura la ragione
per cui il riso dà al viso il più bel taglio  
da non sanare mai: la recrudescenza in vita.

Foto dal web (elab. ferdigiordano)

22 luglio 2018

Questa che ti ripete





Un battito dietro l’altro e l’orologio va.
In un momento ottiene due piedi: tic, tac
e va in avanti, al punto da farsi bastare
il secondo per fare un passo, vero mago
delle distanze. Grazie a questo,
si può essere presente e poi memoria,
bacio oppure parodia, accento o a mille.
Tra i due, uno sparirà, come il bene
detto male dicendolo. Non so perché
venga così, ma pur essendo antica
la lingua è preceduta dal fegato.
Ce l’ha l’onda subalterna al vento,
ce l’ha la schiuma schiava dell’onda,
ce l’ha il granchio una bocca che schiuma.
Questa litania era per te la frontiera
insopportabile di ogni discorso:
scrivi versi che in realtà non riposano,
dicevi, letti raramente, distesi o contratti
dalla funzione più celebre della notte.
So che, alla pari dell’acqua, è inaccettabile
il silenzio quando affondi, so che muto
per povertà di argomenti: il corpo
ha una certa frequenza di aggiornamento
ma le idee sono l’innaffiatoio vuoto
e gli uomini, modaioli nei soggiorni
e nei viaggi, sono privi di accoglienza.
Sia come sia questo esercizio
non fa dormire ma aiuta il mondo
a vedere nella sua grotta un’ombra
e presumere il cuore come umido
congenito e diffuso: a turno.
In seguito ho scoperto di aver perso
la bella partita in quel momento. Lei via
io che cerco un’altra strada.


Foto: ferdigiordano (Salerno: d'improvviso il fiato del sole sul colle).

18 luglio 2018

L’eternità più corta è adesso




Roma: eterna. Muta consonante: eterea. Lei diventa
o toccata si riassetta. Come poteva altrove?
Eterea è quella costanza di ombre
in piedi ovunque - la sua ormai non più in là di lì.
Nei vasi e nel sangue delle fioriture tardive,
non tanto per la storia che si protrae
non potendo smettere, né per le fatue
che qui circondano risolute papi, imperatori,
malesseri, mobili come le loro colonne,
fin dalla prima volta al lavoro degli agenti
sui cotti, noi siamo addirittura sotto i nostri occhi,
quando l’evento è per noi, irreparabili insuccessi,
per un momento breve, solo dopo ventanni.
Pensa: l’eternità può apparire
corta ma sorprendentemente intona i volti
scoperti.




17 luglio 2018

Data per nome


A mama per sempre


La tua lingua è seguita da sempre:
sana sempre, libera sempre,
protesa sempre, sempre linfa
per taluni complementi
solo tuoi, per dire sempre
potrebbe esserci qualsiasi altro giorno in questa finestra
e mille nascite ancora in tempo
per diventare attendo.
Lo sguardo coglie prima della mano il punto
che interrompe l’attesa con un saluto, luogo
dell’incontro postumo ma consueto
per via della concitazione
dove vago non è il traffico nè paragonabili tra loro
visi e case, ossia passanti inquieti e immobili,
ma ripida la fretta presente.
A memoria sei come eri, vera in questa residenza
che puoi chiamare la mia vecchia pelle, derisa
dal vento di ponente, folata e basta
che nulla insegue, ed anche per cosí poco vengo.
Lo scrivo avendo visto tre cose appena: una, un
e la tua fugacità seduta sull'orlo del marciapiedi: cos'altro
trama dalla genesi in poi
in un ambito di turismi ingenui
come mi salta all'occhio la tua trasparenza?



5 luglio 2018

In seguito lo terrei a mente




Se metto mano
a sud del cervello prendo il cavallo
per quel che è: un animale bizzoso
tra capo e terra, superato dagli eventi.
Eppure per imbrigliarlo la vita ci ha messo poco
afferrata per i capelli più e più volte -
tanto del crine non si tiene molto. Meno
della stalla, poi, è per il ventre, ma anche lì
quanto più è vuoto lo zoccolo regge
peggio.
Ricordo di essermi toccato assai
prima del tempo. Ricordo figure patinate
tenute a distanza dai decenti
che impaurivano avvicinando le visioni
al risveglio. E ricordo il tatto incerto
e rozzo via via diventato trasporto: per questo remo.
Ricordo, ricordo... ma era prima
del tempo che fosse traversato il breve
sangue burrascoso.
Se ci fosse ancora lo terrei
a mente.


Immagine del web

1 luglio 2018

La domenica verrà concessa a giorni




Vorrei abbracciare questa casa
come la prima
amica: parola fine
se abitasse qui. Diventa caldo
pensandovi. Caldo integerrimo,
di parola così fatta finestra, battente.
Le pareti sono atterramenti retti
da non so quale voglio. L’anima
un biancore inaudito ruba
salendo a chiazze umide
gli interni, residenti per nome,
congiunzioni e cimeli fatiscenti.
Chiazza è un bel termine: come esito.
Vi somiglia a macchia, in cute nessi
che tento. Viene cupida di là. Viene
ma indica trasudamenti. Levo il dito
piegato: si stira a tratto
l’idea di stagione. Colgo nudo
il colore di riferimento. Colgo
lo zelo dell’aria corrente. Potrei
toccarle il ventre con lo sguardo vivo
presso la finestra.


Immagini dal web (elab. ferdigiordano)