24 febbraio 2018

L’accoglienza del gravido




Lasciai che raccontasse la sua sarabanda,
iniziata rompendo le acque: intorno, mura
di mezzo secolo perciò non si pensò
potesse uscire così facilmente;
continuò peggio nell’aria che trabocca e gelo
suscita il primo schianto del respiro
per una pacca nubile sul sedere sobrio.

Quindi la fascia di lino bianco, lunga
ben oltre la brevità della vita, i baci più duttili
dalle labbra meglio piazzate nel ricordo
dove il vissuto tende al cambio in corsa:
una soluzione lacerante adottata dai capelli
ai piedi per prendere sempre più coscienza.
E non è poco se per ora intendi qualche tempo.

Quel giorno, disse, c’erano nuvole così basse
che il mare pareva aereo, o con l’onda a vapore.  
Per quanto porto, non c’è bitta che non chiami
allo sbarco il passeggero, nè approdo che tenga
a freno la frenesia dell’anca, il seno coinvolto
e sicuro: tre di ben quattro decenni aggrappati
alla stessa paratia, la mammella proteica,
la goccia sapida, le ossa in formazione: tremende
le dure sospensioni. Allora si formò il fondo
che andava salendo nell’anno. Ci sarebbe stata
una rada sapienza, avrei fatto scalo in un qualche
apprendimento che agli uomini costa
più della buona fede. E la via del ritorno era difesa
da angeli / contro il poeta e il legislatore.(*)

Un teste all’ultimo processo dichiarerà inutili
queste grida. Ecco: gli si formò l’alba nella gola,
conobbe il sole, è stato toccato dal fumo,
pesava l’alito, lo infioccava, ha parlato ai prati
luminosi per cogliere una frase, non un gesto
da un corpo a corpo, ma pure la faringe invasa
dalla lingua seconda. La prima era bifida, e gli è

costato uno dei due.

  

(*) W.H.Auden “In time of war” (trad. C. Izzo)

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