Ora lascia
che vada, Signora, come a
prenderti
in parola. O non ci sono
o sono
troppo discreto nelle costole
del
giorno. Non appaio. Non mi vede
la stanza
segreta che abitai come foglio, il divano
erudito
alle pieghe, la doccia, improvvisi
aghi di
gelo.
Il ninnolo
d’oro al collo mi ha taciuto
dove
finisse. Dove tu inoculavi la
tensione
dei gambi di maggio nei nervi
del nome,
del mio nome breve che storpia, dicevi,
al
gerundio.
*
La
lontananza ti dava ali minute
posata a
lungo sulle labbra cherubine,
come silos
di verbi: vieni, e: dai, ti voglio.
Sedersi,
dicevi, non è per chi ama. Chi ama
non è mai
disteso, né si deve poggiare. Una grafia
elementare,
lo ammetto, come una ragione
infantile,
uno spazio immediato: l’assente
trama la
mancanza, la notifica con l’astuzia
di non
rispondere. I timbri di tutti i passi
sembramo i
suoi: chi non c’è
è più
solido nell’apparire ovunque.
Ora lascia
che vada, Signora, come a
prenderti il più rosso silenzio del tramonto.
*
Ah!, il
silenzio. Epistasi tra volta e capitello,
nuca e
bacio. Dov’è insediamento di rovine. Come
i gesti
amorevoli, improvvisi caduti. Sei
aghifoglio
e vertebra, resisti al gelo e mantieni
il fusto
della voce sull’ultima vocale
che ti
ascolto.
Però la
luce ti contiene.
Dove non sei è diverso: più cupo il richiamo delle cose,
complessivamente educate alla tua presenza:
il gesto del caffè, la lungimiranza della cena, la sollecita
nudità della notte. Ecco, non ho la pazienza della notte,
che pone precisa ogni stella, come un orafo attento,
ma riconosco ogni tuo neo come pianeta
e con la stessa cura orbitavo sulla tua schiena.
Dove non sei è diverso: più cupo il richiamo delle cose,
complessivamente educate alla tua presenza:
il gesto del caffè, la lungimiranza della cena, la sollecita
nudità della notte. Ecco, non ho la pazienza della notte,
che pone precisa ogni stella, come un orafo attento,
ma riconosco ogni tuo neo come pianeta
e con la stessa cura orbitavo sulla tua schiena.
Ma l’angoscia muta l'erba sotto i
passi dei ponti.
Diventa vaga
Diventa vaga
la sola
curiosità del volto: ruotare il capo è la
vera corda
che ancora lega la storia
al solito
aperitivo al bar del corso.
*
Domina
l’evanescente: un segno tenero,
apripelle,
è il bacio, non cicatrice ma scogliera.
Parete
ruvida,
con
l’umidità che ostenta i suoi quadri
in forme
ricorrenti. E’ bacio, e pensarlo spiaggia
ai
battelli delle dita, come lo sbarco,
fa
chiarezza sull’approdo: si cerca un valico
che dia
alle parole meno fatica per
insediarsi
nei capelli. La scalata si ferma,
si intona
il respiro, non c’è ritorno
se non
sbiadisce il buio.
Ora lascia
che vada, Signora, come
una mano a
velare il lume.
*
Ero venuto
come una somma
di uomini
a contare nella tua pupilla.
Ero giunto
badando al rumore felino
esposto al
lampo della fuga precoce.
Quietavo
le mie ombre nell’arbusto
del
discorso e l’ossido della solitudine nel sorriso
scosso. Mi
accorgo che ancora nascondo la ferocia
della
stessa solitudine nella seta dei muti. Seguivo
l’ago dei
tuoi capelli, l’incredibile destriero
nei
fianchi, la natura ispida del pube, che pure
mi ha
liberato le mani come giugno ai fanciulli.
Ora lascia
che vada, Signora, come a
mischiare
nel coro la voce inaudita.
*
La forza
dell’ultima ondata, che debilita
il profilo
dell’approdo, è il pianto di un uomo.
Gli uomini
sono brutti quando piangono,
lo sono
anche prima, ma non sanno come riduce
la meteora
del sale, il diamante sul volto.
Sotto di
essa, l’ora si a fa a pezzi senza dare il tempo
di mutare
l’orologio. Una lancetta segna ieri,
l’altra si
pianta nel tronco.
Quindi,
Signora, lascia che io vada, come a
vestire i
panni salvati dalla pioggia.
*
Tu,
Signora, come i battelli allunati, sferzati
dal
pilota, incredibilmente ti attieni al meridiano
dei passi.
Non c’è che un solo orizzonte
sul quale
gravano i diversi fuochi. Dalle mani
e non per
le mani, il vento passa
vicino
alla cenere. Sottrae ciò che resta della fiamma
a tutte le
partenze.
Così
annunciato, il dolore è l’ultimo incendio
che
instaura il gelo.
*
Le tinte,
i quadri vissuti, le visioni perpetue sono catene
di luce,
palchi d’opere, capaci di un lavorio continuo
pur di
mantenere il dolore attento nel posto più comodo.
Un dolore
che non chiede altro che scusa, un male educato
a rinunce,
acquattato nel greto come per vene,
vigile,
esattamente convogliato. Il suo percorso
implica
una portata accessibile, a tratti il guado, scoperto
luce egli
stesso, oppure inammissibile nero
voragine e
constatazione che ogni fondo
ha una
vivibilità compressa, ridotta,
che
dismette il corpo. Si dimena come canna da zucchero.
Direi del
tuo amore ciò che è proprio del ferro:
meglio
alata la punta, più difficile che esca.
*
La ricerca
è un dono della perdita o di nuovo
possesso.
Come per il midollo del volo
è l’ala
l’oggetto del desiderio. E vuoi
per
l’ariosità del gesto, o per la mancanza
di
appiglio, le braccia non reggono
ulteriori
strette che le mantengano
trasparenti.
Ci sono confini,
in ogni
ipotesi di congiungimento
delle
terre, che il continente
non può
ignorare. Né se lo spazio è solo
mare, né
se i ponti tremano.
Il mio
corpo è una navigazione intera che naufraga
sotto il
tuo governo.
*
L’invito.
La dislessia della pianura
da
percorrere, la sua eloquenza di orizzonte
interrotta
dal balbettio della corsa
Ah il
Santo edotto a pronunciarsi: non c’era un cuoco,
un’ombra
di gelataio, capace del dolce, che illustrasse
la ricetta
opportuna alla lingua?
E i
filosofi che dicono? I condottieri cosa strillano? Siano
provate le
estreme unzioni sulla pietra
che
calcio.
*
Levata, tu
sorprendi la roccia.
Ti
riconosce la crepa. Si apre nel verso disteso
come un
passatoio: non c'è la spina nella voce,
non c'è
legamento. Si apre una valle d’eco. Appare
incessante
il coleottero della stella. La stella è
una
compagna vuota della tua bellezza. Come una freccia
inarca il
coleottero sul legno, lo instrada
illustra
il luogo, perciò il volo non si estingue
non è
frutto solo.
*
Ci sono.
Per quel che dice la vita, io vivo
al netto
di ombre, dove mi distribuisce l’illusione;
che sia o
meno un nome, oppure il sodalizio dell’aria
con un
suono acuto, compaio all’asciutto
dei tuoi
occhi. Ma non darmi del sole, piuttosto l’esito
di una
luce ardente, appena mossa, esitante
dove si
perde l’epica del sostegno:
nel vento
serio, o nel computo delle diserzioni.
*
Le
distanze sono un tempio. Mantengono i collettivi
delle
passioni; cortei febbricitanti
esprimono
la disuguaglianza degli amori.
Non c’è
misura che possa esprimere l’allontanamento:
più si
procede
più si
debilita l’anello del torace
che
detiene la quota prima del crollo.
*
La parola
orna il rigo del suo fascino
assorto.
Ah, la parola!, il rigo!
Si
contendono la cicatrice della pagina. Chiudono
il bianco,
evolvono il foglio in pallottola.
Lo stesso
argomento che prosciuga
le vene
del tuo nome
il sangue
della nevrosi. O,
almeno,
l'entusiasmo del punto.
..bellissimo aver partecipato...
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