Ritratti di donne

            Una

            La donna aveva nelle suole mappe aperte per circumnavigare il destino ed i fianchi dei maschi bitorzoluti.

            Camminava sulle orme della sua bussola amara. L’ago era la sua chioma nera: l’est indicato da speranze di gioia, il sud dalla boa di una nascita equivalente alla comparsa dei seni. Il nord come un gesto triste e l’ovest ogni fuga oltre lo steccato che le chiudevano intorno.
            La donna segnava direzioni con una mistura di sguardi intransigenti. Affermava di aver visitato molti luoghi, anche seduta, sollevandosi in tutta la sua statura: ovunque si dicesse, lei aveva posto almeno un occhio. A qualsiasi ora.
Da sola.

            Puntava il passo senza ruotare l’anca e il suo balzo misurava la gamba pesandola sul tacco. Scoprì che la forza si incrementa con lo sguardo. Seppe di poter coinvolgere gli oggetti: un sasso scoprì l’attenzione del sentiero e si pose ai suoi piedi per darle più altezza nello sguardo, una viola rinunciò all’ombra quando la sua figura la colse, un calesse si ferì al mozzo, corto e stridente, e srotolò di un quarto un nuovo tragitto che la comprendesse.

            Quella donna sembrò la luna: cruciale, ma indifferente. Tutta a mezza voce. Frasi da cercare sempre. Con un fare calante.

            Aveva lame di Toledo nei verbi. Li usava in luogo di mani a sorpresa. Fendeva l’aria con periodi netti da piccole torsioni della lingua rosa. Aveva labbra come campanule e fioriva ogni giorno dalla neve della saliva.

            Non dirò del resto, mi appaga già questo: non usò mai il corpo per uscire dal buio.



Due

Disegnava esterno e interno delle case: schizzi rapidi diventavano mura, suppellettili da graffiti.
Ci provo anche io, qui, ma uso un lapis inefficiente, vedrete.

Stava spalle alla finestra come un profilo di strada tortuosa che sale dal basso Cilento al cielo di Orria. Ovvio doverla poi rappresentare come ancella di terracotta.

Dai seni si origliava il suo verbo pulsante, la commissione del sangue, il suo giro per la località del piacere. Con difficoltà. Ne intuivo la pelle delicata come seta artigiana, il drappo sottostante la cotta, l’armatura nel duello.
 Tiranneggiava dai fianchi, si vendicava sugli omeri o col sottile malleolo. Debitamente poggiata sulle fibre nervose, era levigata e lucente. Seria, ulcerava il desiderio.

Spesso, lontano dagli occhi, accadeva ai campi. Li impregnava di messi. Una luminosità rara che anticipava la chiarezza della farina. Aveva, in pieno inverno, tutto il sole di luglio e persino l’astro pilota la raccoglieva dal solco come raggio restituito al mittente o come fluissero lampi legati a ciocche.  
Apparivano in ogni ipotesi di aria mossa, poi subito via per darsi un contegno, o fare il miraggio.

Quando lei annuiva, quando sulla platea del collo la sua messinscena di risa ideava la ruota, migrando gli zigomi a destra e a manca, avresti forzato il suo costato per esserle osso. No, non fino al punto da aprirne la vita, soltanto avresti voluto starle negli occhi e prendere possesso della più breve sillaba che le sorgeva in mente.
Avresti voluto cancelli prima delle labbra, avresti voluto che i denti fossero stretti, contrari alla fuoriuscita dal suo corpo. Avresti voluto, perché non potevi: così era, così è.

Le diedi il mio respiro perché mi facesse aria, la sua aria più prossima.


Tre

Chi potrebbe pensarla diversa da un incendio australe, quando, per mano del sole, collide col suolo quella massa incorporea d’inferno, ed in tutte le storie dei legni compaiono le acrobazie di una furia di fuoco?

Noi eravamo i fusti invisibili. Sopportavo senza tormento. Lei non osserva per caso, pensavo. Non si lascia attrarre dalle figure. Cerca l’oro negli occhi, mi disse uno. Ama la scena. E’ la star del quartiere. Ha lasciato l’impronta in ognuno di noi senza avvicinarsi.
Ma il loro naso da fiuto asseriva che tutta la città potesse godere, lei volendo, della lungimiranza divina nell’evolvere razze. Dicevano che la sua pelle fosse la walk of fame dei protesti bancari, tanto era bella e predatrice dei conti.
Chi ancora vive nei dintorni sa che non mento, venite per credere.   

Lei, che rivedo incresciosa ed esposta, che da sola avvampava le guance dei più coraggiosi. Eroi di terra e di moto, un po’ meno lo scooter, cercavano, narici nell’aria, la traccia inequivocabile della sua compostezza, il profumo che perseguita la voglia, la illude di pioggia.
La cercavamo sempre dove spariva: lo stesso portone, diverse coupè. Continuamente. Lei ci sorpassava come un camiòn sbanda la lambretta già superata!

Non ebbe, al momento dei turgidi seni puntuti e puntati al mento, guidatori imprudenti. Non rimase ferita: la bellezza consapevole ed esposta, che colpisce in avanti e incatena le spalle, fu il guardiano più arcigno che tenne salva da assedio la rocca del cuore. Eppure, quel furioso tacere gli sguardi con la calma ancheggiante dei fianchi – un pendolo che muniva i minuti di gambe -, quella lei che, passando, districò anche l’eco dai muri come vertebrati silenzi, adesso mantiene la sua fiamma più larga, non ancora esaurita, fasciata nei jeans mentre cuoce le rogge degli occhi a tutto il personale maschile nel bar della piazza, ma travasa visioni di sesso rubate ai riflessi di bicchieri imprudenti. Dalla sua lingua, un bruciore allo stomaco che arrotola giovani nell’onda dell’aperol.
Ricordi?
Ah, che io è rimasto, quando fuse tutto il bronzo della mia faccia per un inguidabile ciao.



Quattro

            Passò come un rostro discrimina argilla dalla pietra. Passò tra di noi scavandoci un solco che a tutt’oggi matura un pensiero. É il vomere gioioso della sua intelligenza. Che forza la spinge! Ed era piccola di corpo e di gambe: una cineseria con proporzioni filiformi.
            Ce n’erano altre, certo, l’avrò anche detto, ma era come lasciare la vela per farsi consumare dal remo. 
            Attraversava fiumi d’uomini rudi opposta agli errori dell’impeto. Quasi una diga. Di più ancora: la logica femminile sagace e tagliente.
            Nessuno la dirà mai bella né la si ricorda per un seno effervescente – a ben guardare solo per quei glutei come mezzelune.
            Brillante ed elastica la voce era nuova di zecca: coniata con onomatopee irridenti Monete di sillabe nuove tronche di vocali e silenzi con suoni che la luce non porta nè si dovrebbe pretendere sbianchi
            Aveva gocce di sale nelle pupille Un colore che a vederlo nemmeno diresti così trasparente Un involucro sferico che a raggiera dal ceruleo al verde si aggrappava al tuo sguardo con un che della mano che solleva l’inciampo dal piede Tirava via la fretta dal passo e ti facevi statua all’incirca per ore Nessun orologio ripeto nessuna lancetta segnava il suo tempo e il tuo appariva frenato Una sorta di labaro il ventre: vi nascemmo amanti a difesa da noi stessi
            Una donna, lo dico riandando ai suoi luoghi, di cui non cercammo l’appartenenza, che nessuno di noi si contese. Eravamo felici di averla tutti insieme purché nessuno la possedesse.

            Seduta, lì, ai piedi della Vittoria che spezza catene, scoperta di schiena alla luce degli occhi.     


Cinque

            Le indicarono il suo autoritratto.
            Le dissero come fosse uscita dalla tela. In realtà vi era entrata a mani nude con tutti quei colori che si portava dietro nelle iridi la domenica con lo sguardo da passeggio.
            La temevo.
            Appariva inaspettata come nell’antro della notte muta si apre un crepaccio di rumore. A scanso di equivoci, illustro quella apparizione di abiti lisi malamente aggiunti e sottoposti ad una criniera di covi, dove partono grida di fili castani spaventosi.
            Penso che nemmeno al demonio fosse nota, ma a noi del tavolo d’angolo davanti al bar coppola dava segni di uno squilibrio creativo che non si vedeva dai tempi di Sivori e delle sue veroniche.
            Dipingeva facce strane.
            Non era un fatto di gusti, né che le mancasse esercizio di dita. Le piaceva somigliarli a gigli. Alcune più lunghe, credo, però sempre volti di uomini cupi, pur se fiorivano stami gialli gli zigomi.     Disegnò anche me, dandomi l’aspetto di oggi, per questo non volli tenerlo. Aveva visto dove la morte segna i suoi punti sulla lavagna del viso. Anticipò quanto non le sarebbe piaciuto. Mi stava come la pelle di oggi. Certo non sono invecchiato per questo.
            Ancora adesso la vedo così: osservo come poggia al bicchiere un cartoncino d’amalfi e con tre-pastelli-tre il bianco si anima di una purezza insostenibile.
            Dice sempre: “la vita è sorsi di caffè: scuote il nervo con l’amaro violento. Corrobora la sua acidità con grani di zucchero dietetico e il dolce appare falso dove immergi la lingua.”
            Si rivolge affabile a noi chiedendo come cazzo facciamo alle quattro di tutte le albe a scrollarci di dosso la notte. Era estate: non c’è bisogno di usare la gomma; ma come cazzo faceva lei ad essere viva ad ogni ora!

            Pochi capivano l’uso delle cere: lei viaggiava a colori. Mai interi, li fondeva insieme: - Il bianco nel graffio circonda l’isola del sorriso, - diceva.
            
            Qualcuno di noi l’amò disperatamente fino al punto da lasciare una rosa al suo tavolo. Si sedette con la commossa meraviglia che il sole può dare alle finestre inadatte alla neve.
            La vedo come fosse ora: si cala e l’avvampa la visione del fiore. Con due lampi di cera ocra e rossa disegna la sua passione, in un angolo versa il suo caffè dal tremore istintivo e vi pone scaglie di terra dal vaso. Striscia con due dita tutta la carta  e vi piange sopra.

            Non ho ancora capito cosa fosse, ma aveva un gran dono: la purezza del Salve Regina nel mattino colorato di sole che nasce da solo.


        Sei

Scrivere una pièce. Allestirla in modo avventizio. Fare prove, mandare testi a memoria. Disegnare e realizzare una scenografia sparagnina e povera con la latta dei barattoli da caffè, quattro lampade da centowatt a colori diversi, otto sperduti personaggi in cerca di rossori: insomma, tutto nasceva per lei.
E non era uno schianto.

Adesso mi sta davanti con un sorriso che a riva nemmeno la schiuma più candida. Sembra uscita da quello stesso biancore che si frange e perde consistenza, gambe sinuose ed altere di un libeccio teso e scarnificato.
Elegante nella sua camicia a collo lungo. Sopra, un semplice tailleur con pantaloni color lattemiele. Avrebbe ingrassato chiunque, non le sue lune, di quelle a picco negli occhi quando impersona la luce. Senza schianto alcuno, lo ripeto, non so se ho reso l’idea.

Mi chiedo, ora e qui, in quest’adesso di frustante similarità, come fossi, come ero. Avendola davanti ancora, stupidamente mi avvicino ai capelli, che non attendo, e risento il profumo a mente.

 Avevo scritto, avevo diretto, finalmente recitavo per lei. Insinuante io,  altera lei. Non tanto del suo corpo, ricordo, quanto per quel sorriso che schiumava dal suo frangere a menadito la mia storia di sabbia sonora, lì dove accade il libeccio, di cui sopra - attenti! -, come un rastrello, lascia le mani vuote se non tieni strette le dita così che lo sguardo si annida dal volo.

Ho aperto, proprio in questo luogo appartato da parole, tra la balaustra del se e l’improponibile pavimento dei ma, il baule del tempo: mi appare nitida benchè una folla l’avvolga.
Non sono suoi contemporanei.
Non li saluta.
Osserva ridendo la porta e fa per andare.
Ha un passo compresso, scivolato.
Si solleva a fatica la punta, sembra restare, poi il gesto rapido del braccio slancia l’avanpiede. Ha il busto diritto, che appunta i seni nell’aria. Corrode lo spazio con grazia e lo segna: danza mentre cammina.
So che è qui, so che ha una passione per restare, quasi anche lei avvinghiata rientri. La vita le è corsa incontro non appena mi ha lasciato la mano. La vita è un intricato andirivieni di soggiorni, di turismi aleatori, di stereotipi fu, era, non più: troppi verbi mancati che inseguono.
Lei no, lei stava sul palco del petto come in questa messinscena di parole il silenzio che la chiude.  


            Sette

         Che me lo dicesse qualcuno di voi! Spiegassero i più sapienti quale altro viso è patria di quegli occhi inusuali: il nocciola circoscritto al nero è un marcatore di frontiera così tondo e rigido che mai vi passerà un uomo diverso da me.
            Sappiatelo prima che io lo dica, qui, a voi!
            Ho letto le sue interiora, dove entrarono le mie schiere. Ho assediato le sue torri, in cui aprivo brecce a parole. Parole! Eserciti di verbi invasori e aggettivi lanzichenecchi, al soldo dell’abbandono, le avevano tumefatto la bocca. Mi aprì il suo cuore; si gestì col mio l’unione. Fu questo l’errore. Per mille giorni, un errore.
            Conosco la sua anima come le punte dei suoi no che, mai estratte, mi fermano il sangue da allora. E provai le dita in gola per tirarmi fuori la virulenza di quella infezione. Non uno solo di voi pronunciò unguenti opportuni. Non uno, a prova che nel disastro è contenuta la solitudine delle ricostruzioni. Sì, furono in molti che usarono il deuteronomio della riconvesione sul dolore: chiodo scaccia chiodo, si diceva; chiusa una porta si apre un portone, era il ritornello ottuso, ottundente; ma niente che provenga dal fiato riesce ad abbassare la fiamma che devasta i soli. Lo sapevate anche voi: allora perché l’olio inefficace della consolazione?
  
            Oh, la conobbi, certo!, e non grazie a voi. Voi che non mi diceste, a quel tempo, quanto rapido è il vero a mutarsi in frammento di falso - che sempre attualizza il dolore -, appare certo oggi, da quanto racconto. A me no, anche a riviverlo da distante - da altri continenti di tempo -, quanto fosse inattuale mentre crollavo, quanto illusorio si mostri calmare i tremori con le frasi sonore e, se conviene ad acquietare dubbi, si tace e non si muove la mascella del perdono.
           
            Mi chiedete: perché vuoi rivederla ancora?

            Ha fianchi belli, lei. Zittiscono i tormenti le sue forme acquattate nelle gonne corte. La cruda ansia che mette nei gesti è al netto delle parole, una lingua portata all’osso. Senza essere l’acqua irrora l’aria della sua pelle. La circonda di intransigente follia d’esistere e l’esistenza stessa è escussione d’occhi, verifica delle pulsioni. Andirivieni di pose. Adorazioni. Si capirà che l’amo più avanti, dove ha traguardo il senso in quella voce che sfuggiva.
            Fu d’agosto, mi lasciò anche il calore, che non cerco se non viene quel sole.


            Otto

            La passerella era il braccio robusto dei fari.
            La reggeva sul polso.
            Ai lati di ogni visione c'è sempre uno straordinario equilibrio di attese. Lì, ad esempio, il pubblico protendeva in avanti il viso: un unico volto segnato dall’ombra.
            Mostruoso il nero con decine di occhi come fanali.
            Parlava la balbuzie degli applausi.
            Qualche frammento di mormorio, tanto sudore sui palmi che strattonavano inguini.
            Molto acide le salive delle donne.
            Si sentiva dai fiati descritti nei racconti dei commerciali.
            Sui sagrati si raccoglievano oboli di tribolazione da distante, così era il peccato ripulito nei pressi. Così appariva senza alcuno scrupolo.
            Ruotava sempre a destra con quel gesto morbido della mano opposta, raccolta a cogliere dall’aria lo stupore dei maschi. L’anca mostrava il profilo di una fragola acerba. La spalla scrollava i lampioni. Il seno aveva tessiture ocra pallido. Appena appena due noccioli turgidi esprimevano il senso futuro del succo.
            Le donne giovani ne prendevano il sapore imitandola sui balconi.
            Lo intuiva in quelle ciglia socchiuse, disadattate al sole.
            Roboanti, se si fossero aperte del tutto.
            Era sottile. Uno stelo proiettato da caviglie fluide.

            Annunciavo i capi dell’abbigliamento intimo che poco copriva ed ancora meno rimaneva in memoria. Si vendeva quello che mai avrebbe contenuto. La mia voce era solo il suono della frustazione. Bassa, roca, a tratti l’emozione tremolava. Speravo mi notasse; poi, ovvio, sapere quanto avrebbe concesso di suo. Mi consentì di entrare nelle iridi e visitare la chimera della mannequin che non divenne.
            In quel mese di fiere, fieno, passaggi a livello, rotabili sconnesse, lune più grandi della terra, stelle di piazze confuse, ci cogliemmo in più covi di buio che tra profumi di verbena. E lì mi lasciò, come ancora adesso sarebbe.
            Aveva la metà dei miei anni, ma il doppio di corsa.
            Non si può attendere che la luna ti porti alla notte, se la sera ti mantiene a distanza.


            Nove

            Ci sono degli hangar dove ricoverano aerei che hanno visto lo stupore degli stormi ai primi voli dell’acciaio lucente. E di quell’incomprensibile rombo sono morti a fette. Come avrei potuto nasconderle la meraviglia quando mi apparve improvvisa la sua carezza? Non ero io l’acciaio, non lei lo stormo. La carezza proseguiva una corsa indipendente.
            Non mostrò timidezza nella seta del gesto. Le dita scelsero solchi nei ricci. Seminò fasci di spilli che imbastirono la nuca e un incendio senza alcun crepitio si sparse tra le spalle in mille scintille. Avvampai. Forse cadde riverso il primo pensiero da maschio. Non si alzò alcun sibilo. Né pieghe di vestiti poterono stirarsi dall’inguine. La delusione era inguardabile. La bocca prese una curva legnosa. Il sangue era cemento.
           
Da qui, vedo bene il passato: lei piega il capo di lato. Ha capelli come un timone d’ala. La vedo solo ora in quella curva morbida che le consente di osservare non vista, di decidere l’occhio che inizi la marcia.
           
            Io, ora, li sto guardando da un palco virtuale. Appena sopra la crenatura tra i corpi. Hanno un calore efficace, ma sembra che lui raffreddi.
          L’esiguo torace di lei è calmo: non si pronuncia. Le labbra sono ferme in un lieve sorriso. Non leggo i suoi verdi occhi, ma so che sono talmente grandi che sarebbe possibile una baia per cento cianciole.

   Lui sono io: come un molo.

          Lei ha una schiena vigile leggermente flessa a sinistra: è da quel lato che il braccio muove e mi accarezza il viso. Sembra una vela di bolina e scarroccia leggermente subendo lo slancio dello zigomo. La pelle nuda è orzo che fluttua. La sua peluria è timida dove accorre l’aria e la piega. Coglie lo spavento che lo allontana. Si abbassa ancora. Lui è un crinale, lei si orienta dal ventre. Ha un alito fresco. Prende posto sul mento il suo labbro carnoso, poi il gemello. Valica la sua sorpresa. Accende tutte le fiamme dell’universo. Dirime il caos iniziale. Crea la bocca come facesse un pane, una pasta. Addenta. Chiude gli occhi e muove ogni lingua che può.
            Lui non ha ancora capito: spalanca le palpebre e ritrae la saliva. Capirà più avanti che un bacio lo si affronta con l’animo dello scalatore: se sei inquieto devi essere veloce, se rimani senza fiato, occorre che rallenti. E' inquieto, ma rallenta, sbagliando il ritmo e ostruendo la gola. Chiude lo sguardo intorno e viene il buio così pieno di lampi che piove nel cervello e il temporale sceglie le vene per gronde. Si aprono cateratte dove scroscia l’ombra di lei.
           
            Il lui senza ombrello sono io.

           Se avete creduto che l'arrivo del primo bacio è davvero sedere sulla cometa, è comprensibile che a tutt’oggi ne vediate la coda.

            Lui se ne accorge, come ancora io.   


            Dieci

            Era alta.
            Più alta di un olmo. Senza alcuna stagione, a vederle le mani; la pelle come foglie.
            Capelli scalati che Crepax ne avrebbe disegnati a miriade, tutti dello stesso autunno, castano sui monti.
            Quasi due occhi per guancia, tanto erano mobili.
            Il naso, una fragile culla in cui il respiro non dava occasione di incontro a narici a forma di goccia. E quanti, di fronte, avrebbero pensato che salisse dalle labbra scollate, il leggero sorriso a cui si era educata? Già! La sua bocca calibrata ed esatta disegnava fossette nelle guance liberando una gioia.
            Stava sulla soglia come in un quadro: la vedevo dipinta del mio imbarazzo. Qualcuno penserà “che sballo, la sua vestaglia leggera, e applausi a quegli orli!” Se di applausi si trattava negli angoli, ebbene, nessun rumore me ne dava atto. La stoffa calava dalle spalle senza alcuna piega. Il precipizio del cotone era lì, a portata di passo, bastava avanzare e si apriva al centro dove l’opera del sole aveva levigato due leve di bronzo per farne muscoli sobri. Quasi piegato, il ginocchio mostrava pudore accostando le fibre degli opposti sartori.
            Rimasi a lungo in quel breve minuto.
            Comunque le parlassi, ero muto.
            Benchè mi voltassi, fissavo la sua bocca.
            Nonostante fossi presente e vivo, sentivo che l’aria ha un suo peso terribile e schianta il torace, dopo aver accavallato le tempie. Svenivo, oppure barcollai quando la sua voce di allodola, cromata, mi invitò ad entrare.
            “Vieni,” disse, “accomodati al mio fianco.” Forse non disse esattamente questo, ma, dicendo qualsiasi altra cosa, avrei disorientato i ricordi impressi da lei.
            Presi posto sul letto. Mi distese.
            Era naturale, in quella posizione, trovare almeno un orizzonte sul suo corpo: il seno sembrava capace di ospitare il cuore di più persone. Si percepivano diversi battiti sincroni. Suoni diversi, è vero, ma di precisione.
            Se sapete distinguere una donna da una femmina, non c’è motivo che io mi dilunghi, ma almeno concedetemi questo: lei era un ancestrale miscuglio di pulsioni. Il primo caglio dell’argilla umana. Il conio della razza che espone la sua voglia di passione. Agisce come innesco e deflagra perché tu soccomba. Una rabbia turbinosa che traina la dolcezza più sognante, immaginifica, visionaria. Insomma, nella mia accezione, navigare con il mare in tempesta scombussola meno… E naufragai. Andai fuori rotta. Non dirò cosa accadde, ma so che i più attenti capiscono: la prima volta che affronti una vetta hai l’idea che con un solo balzo starai sulla cima; accidenti!, capita che posto il piede fuori dal sentiero tracciato, tutto frani e una valanga ti sommerga. Fu tenera la sua mano tra tanta vergogna.
            Resta ancora un vago alibi per la prova che non si concluse, ma stranamente quel viottolo mi ha sempre negato una risalita.
            Ora la strada non riporta indietro, per quanto io non sia andato molto avanti.    


        Undici

        Stava lì, sugli spalti, e gridava il mio nome. Non che fosse l’unica, beninteso, a dar fiato all’entusiasmo per il gioco, ma la sua voce infantile mi arrivava chiara da un altro deserto. Uno spazio di spilli insabbiati in cui affondava la luna che me l’aveva portata. Lo so, la luna non parla, ma a volte da una superficie metallica - che so, il cofano dell’auto, una lamiera in cinta di un cantiere, persino un vetro che di norma assorbe tutto il restituibile - il riflesso sembra chiamarti a gran voce. Così lei, più giovane delle mie cento figlie mai nate, meno lenta di loro a comparire al mio fianco, mi avvicinò tra daddy coollove in C minor di cerrone. Si suonava sul lido, nel sudore assoluto. Si scanzonava coi primi potenziometri fatti in casa: manopole a manetta che gracchiavano come un solo volume.
            Da quel “mi metti una canzone?” a tutt’ora, divenne una eco che rotola; e rotola insaziabile di rimbalzi a filo di onda. Scalmata, come mi parve la gonna, nel suo dubbio di donna, irrisolto da una crescita precoce.
            E lei gridava il mio nome, lo spandeva sui gradoni, quasi fosse una nebbia, perchè non vedessi che lei; perchè sapessi che dovevo correre là o ricevere il pallone da quell’altro, o che il compagno di fianco doveva lasciarmi fare tutto, ma proprio tutto, perfino parare un rigore!
            Certe volte, lo so, la stanchezza della corsa assume i connotati dell’erba. Ti piega come uno stizzito ruscello sul salto della prima roccia, ti frange poi in scorribande scomposte finchè cedi la palla senza fiato, finché non ne puoi più di steccare nella smania di sembrare pelè. Chi ha calcato i campi di calcio, intende bene la sorte di cui parlo. Eppure le gambe legnose, i muscoli troncati dall’acido lattico, le fughe col vuoto davanti, i contrasti ad arte tra gli arti, lei li augurava a tutti tranne che a me.
            Era fragile, più piccola del cubo di rubik, meno complessa da svolgere, meno colorata. Se si vuole, se vi ricordate, rumorosa come le clic-clac, ugualmente un pericolo per i polsi.
            Magra come un urlo secco, risoluta da darle un ceffone per ogni contraddizione, arguta e spavalda, rocambolesca perfino tra le scapole, con quei salti d’umore che appartenevano a marzo, il suo mese di nascita.
            Dicevo di lei: una voce sonora che saliva, che crebbe come le guglie del duomo; e, come tutte le voci, ancora viaggia nei silenzi senza uscire da quel piccolo corpo; e portò via le canzoni, la sera sul lido, il pallone, rubik e cerrone.



           Dodici

      Aveva due occhi che andavano al centro delle cose. Si dice “strabismo di Venere”, pur non essendo lei la dea. Guardava sempre nel mezzo come un occhio solo, ma erano due. In più, divinava il futuro senza alcuna preoccupazione del passato. Io ero il presente: non mi toccava.
            Una donna che sembrava normale - avresti detto - con quel fascino delle persone incompiute che parlano di eventi incompresi, da sapere solo dopo che fossero accaduti, ma il giornale aveva bisogno di fondi. Denaro, e tanto!, sicuro.
            Accavallava le gambe come un tornio a pedali sviluppa le curve all’argilla. Le mani accompagnano il saliscendi ruotante con la cura di una processione fino alla bocca del vaso. Lì, rapite da una forza invisibile, asportano l’acqua e la pelle ritrova freschezza nel palmo. Lei chiedeva di più: l’ostensione del piacere crumiro, il lavoro dei fianchi nel calendario.
            Ci credi che il dito, se non l’avessi retratto, rischiavo di perderlo? Tu scuoti la testa e sorridi, ma sapessi che aspetto mostrava divorata dal piglio del piacere recluso!
            Esponeva la bocca come fanno le rose di maggio che ti portano alla prima estate, al primo nudo spontaneo nell’ombra dell’acqua. Rintracciava la fuga dei polsi ovunque li avessi appoggiati. Era in tutti i luoghi. Sì, come dio, ma solo in quella redazione.  
            Non pensi anche tu che la voglia di un corpo non si debba pagare a cambiali? Scuoti la testa ridendo, ma sapessi il bisogno dei tanti creditori dove situa i confini della mia purezza!
            Poneva la gonna con grazia incresciosa ben oltre l’autoreggente. Un triangolo chiaro esponeva quella punta di freccia a contatto dell’acciaio più duro. Debordava i suoi lati schiantati sull’offeso metallo impenetrabile. Nessuna vergogna mostrava la pesca delle guance. Era grande la pesca. Era matura. Non le cadde mai.
            Ci credi che la pesca mi morse? Se non muovi la testa e cancelli lo stupore dagli occhi, ti spiego perché, e come, da un frutto bacato si fa cibo per tutti.
             


            Tredici

            Dove verificava l’eteronimia dei suoi cento nomi era Marina. Un nome pronunciato quasi sciabordi la risacca in una moltitudine di gocce terse, dall’alfabeto costiero; una soluzione a pioggia, si potrebbe credere, ma non per caduta.

            Era figlia della terra più assolata d’Italia, angiporto del più misterioso deserto d’Africa, un mare più avanti.
            Aveva una stella spenta negli occhi: buco nero, dell’unica notte in cui gli angeli chiarirono l’universo aprendo la finestra che dà sulle stelle. Lei era quella che mantenne più a lungo l’attraversamento delle orbite adeguando la collisione al colore: un urto di fiamma cui non seguiva il chiarore esploso. Evocava quelle ombre maliziose e misteriche che fanno del pensiero femminile un cosmo plastico di cronache celesti. Il duttile scoglio che infrange la marea dei pretendenti.
   
            Il braccio, di fibra sottile ma più che potente, era capace di gesti decisi ad un tempo leggeri, minuziosi. Ti circondava con una grazia agile, misurata, inavvertita. Aveva case costiere sulla bocca promontorio di aderenze carnose, scivolate nella sabbia dei denti, ossario di coralli seducenti. Lo stesso fresco, uguale acquerugiola appena le mani. La sua gola un ghiacciaio eterno, su cui mulina la tormenta i canoni dello scioglimento: un vetro.
Trasparente e intrisa di riflessi: si capiva quel che diceva da ciò che taceva. Si capiva dalla piega ingenua della nuca.
    Ma timida, circospetta, a devozione delle labbra serrate per le navate del naso.
La pelle, sgrossata da orpelli penduli, aveva la tinta di un affresco che dalle volte magnifica madonne ingenti, senza peccato, con l’orgoglio al capezzolo.
Regale fu l’angelo che si sciolse in lei; divine le scapole, a dare prova delle ali che si erano perse.
           

            Non aveva memoria, così mi chiamava con nomi diversi, non solo nel tono.
Come diamanti amava gli uomini, tutti, anche i non compresi.
Come diamanti mostrava in giro la sua collezione di corpi: tutti, nessun membro escluso.
Come un gioielliere esperto elencava i bagliori facendoli esplodere nella voce. Così fui Marco, Paolo, Teo, Senti…, Che pensi?, Ehi!, Luca, Francè; e li risento ancora, deluso dall’eco che inesorabilmente spegne il suono pieno dei luoghi, il suono segreto del rossore: il nome amato, custodito, intriso di ricovero. Finché mi convinsi che un nome non è urlo, ma il tuono in persona.
           


            Quattordici

- Dimmi, quante volte ti ha attraversato le tempie la freccia del mio nome?
- Che domanda è? Tempie, freccia, attraversamento… Dillo a parole semplici, ma un po’ più vicino a me.

            Tanti anni or sono, più o meno all’altezza della prima turbolenza, quando il corpo decreta la scelta del suo nord, un polo che mai raggiungerà compiutamente pur ponendo bandiere sulla calotta dei ventri, lei mostrava la ferocia della lingua essenziale fino al punto da accendermi del rossore più intimo che c’è.

            Oh, non era una pin up, perché il primo amore non è mai in cerca del clamore. Era piena del senso della macina, femminile e sagace, attraente per la furia dello sguardo, quell’immancabile amo… Il primo amore insegue un come nell’incoscienza: lo stelo ossuto che male interpreta l’avvenenza esposta, la robustezza da farsi, il nodo nel tronco. E’ della crescita questo malessere e si forma nella contumacia del lievito dei tendini, ma si lega all’amaro con la sagola del fremito continuo, miracolo inscritto nella profonda cavità delle cellule antecedenti la barba. 

            Più maturo e formato, il clamore della donna preme nella vena marziale come un’arma sfacciata e irridente: erige la palafitta per fondare il castello: sceglie le sue torri, ottiene l’assedio a cui arrendersi; in realtà la casa che regge è quella con meno amore alle pareti: tutto il cemento che occorre è la passione come fondamenta.

- Tu sai che non posso farne a meno se guardandoti le parole si attraggono da distante.
- Ancora? Davvero non ti riesce di parlare senza ingarbugliare la lingua?

Tanti anni or sono, il jeans disegnava i tuoi fianchi acerbi per le manovre delle mie mani randagie, senza meta. Perché si ha un bel dire che la mappa è lì, spiegata e semplice, ma un tragitto segreto suppone la padronanza del terreno, la sensibilità dei pori è alla sua alba, ma quando la traccia prende coscienza nell’assillo del piacere, il gioco tattile attiva l’attenzione occorrente, l’alfabeto della stimolazione si completa, la contaminazione della pelle sostiene la saliva vischiosa, supplente.

Però lei aveva territori curiosi: il seno appena esposto con capezzoli seri, cilindri bruni, aureolati come santi che suggono iniziati, e in parte sommergono, quei fari cruciali della navigazione ad ormoni.
Allora io non ne potevo conoscere i meandri: la saggiavo nell’unica realtà plausibile: l’immaginazione, la straordinaria dissidenza del mio creato dal creato sottomano. Ero privo di cecità ma cieco fino al midollo e il midollo è, nelle mani tremanti, la carezza più incerta.

- Che corpo emotivo e che occhi lucenti ti ha fatto il tempo…
- Dimmelo ancora… e inutilmente mentimi, se puoi. 

Tanti anni or sono, come pure la lingua violata quest’oggi, generammo una frase insostenibile e unisona:

- Sottraiamoci dalle nostre voci profonde, non siamo necessari al rumore del mondo se i corpi si fondono.

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