Per tanto questa
Non condanno la rosa o la mora
che scelgono le spine per la difesa
e per finire vengono alle mani.
Assolvo il dovere raccapricciante
del dolore procurato per sopravvivere
allo strappo tra noi e il prato
che macchina il riavvio delle fioriture.
Sembra che una tiri l’altro dal profondo.
Come interrata la prima vera mente
si adopera in visioni per cogliere spunti
di nuove generazioni di pensieri.
Tatto e udito dal punto di vista
dell’odore aspirano all’universo
nei limiti della radura. In questo
piccolo spazio, dove si coglie
il tuo numero per intero, l’infinito
prende parte perché tanto
questa gli torna, a noi rimane
la spina del nome. E col nome
conquista una cosa per volta
all’oscuro che da tempo ci provoca.
***
Reduci dall’umanità
Dove c’era quel palazzone paglierino,
con modanature caserecce e inserti
indaco più volte che finestre, a stento
si mantengono le rovine costruite
dalle bombe. Un bersaglio a mira
dei droni. L’aria unge l’acciaio
per reggere il colpo. L’aria si sporca
senza volerlo: i corpi volanti adesso
sono artifici macchinosi e letali,
scopiazzano gli ingegneri demolitori,
ma con assoluta perizia strumentale
eseguono l’ordine di devastazione.
Oggi è il quattromiliardesimo giorno
che viene à la Terre comme à la Guerre.
Nei parlamenti lo sparato è d’obbligo
ma la morte non è in discussione:
aumenta il prodotto interno lordo
di sangue: un rifiuto umano, pare.
***
Be one Per tornare a me ho preso energia da una buona forchetta. Quattro denti infilati in un serto di avori cui mancano quelli decidui per il riso. Decadenza sul serio. In un uomo, qualsiasi umido destabilizza l’orizzonte: diventa vacuo, inaudito, come fiamma la gola! Più sotto,
il ventre lancia a pelli un mare gibboso
e privo di armamenti. Deserto in mezzo:
mi tocca la vela ammainata
sul bompresso. Lì è il punto, lì è il punto sul quale cadono
gli ombelichi e criticano gli occhi.
Pontificatori! Se fosse un male comune il mezzo gaudio mi avrebbe depresso. Che invidia per il vecchio universo più in forma di me.
***
Eroshood
La vita è la freccia che colpisce a morte i sensi.
Chi è l’arciere? Non Eroshood, che nasconde
all’anagrafe le sue mire antiche. Sottrae pagine
dal tuo ricco annuario per dare attrattiva
alla povera età: fastidiosa quanto i ronzii
della menzogna che relega gli occhi
a fonte di gioia. Cos’è la gioia? Eroshood
non lo chiarisce, ma tra le pieghe spiega
lo sconcerto come gong di fine ripresa.
Torni bersaglio della vita che avresti detto
grazia d’amore, a scanso d’equivoci
adesso.
***
Come parcheggio
Ho messo le mani tra la roba della notte.
Il vento ha sfidato a sorte
il giorno sulle foglie del platano
che pare di guardia ma è solo di legno,
un’opinione che si consolida
appena diventa chiara l’ora.
Un rombo rado diventa sordo
sulla tangeziale, direzione calma
- che è un’altra vita diretta a boh!
come un reperto sotto le dita condite
di pieghe.
Si ferma ad un palmo dal polso,
una data che ha già tutto, proprio tutto nelle more,
i libri e il cortile, le navate e i sogni,
roba da notte predetta e che forse
mi raccoglie o è qualcos’altro
che uscirà in fiori.
Curiosità da non credere
L’arcobaleno raccoglie i gradienti
del genere luce scomposta
in nastri; nastri da regalo privi di nodi
che si tengono insieme da more.
Sempre bianco come nient’altro
il gelsomino lanciato dal sole. Vivaio
di fuoco, serra il celeste impero.
La curiosità tratta l’attenzione
con un occhio particolare. Insoddisfacente
nonostante l’organza in giro il raso a volèe
e il fresco cotone di ampi sorrisi.
Dai loro punti interminabili, le voglie
prendono le stelle con rotte instabili
non a vista. Si nascondono, in una parola.
Le sorprendiamo e ci sorprendono.
Abbiamo potenti visioni, ma svaniscono
in fretta quando indichiamo l’autore.
Un dito sollevato al cielo crea un vuoto
d’aria per l’appunto. Chi altri lo legge
oltre l’occhio curioso delle penne?
Su di un muretto del parcheggio,
una coppia si sottopone al giudizio
dell’ombra per un po’ di ormoni:
in genere sembra un luogo comune
ma a bassa voce si crea il deserto
intorno. C’è un miraggio in corso
e qualsiasi cosa mostri si scompone.
***
Il cortile superato dal corpo
nell’approssimazione di uno spazio apprendistato
- ricordo ero tale o che altro significa animare il presente
di una sembianza posseduta tra date capesante
svuotate del mollusco rimasto.
Oh, che bel bocconcino è stato!)
Le ragazze avevano calamità inconsapevoli,
delle quali si diceva, sognando anche.
Ancora mi chiedo quale effetto ebbero
le prime volte del nailon sotto le gonne
dentro di loro.
Che cosa le rendeva più sicure? L’abbandono
dei calzini corti o il primo bacio sulla scala A?
A me capitò vicino l’albero di giuda, a bordo
dell’aiuola con la forma a u, e, diomio!,
il tremore mi colse più minaccioso del cielo nero
che spodestava un grande giorno. E a letto poi
non c’era battito che non suonasse da uomo.
Ci sono segreti nella femminilità che superano
l’accordo tra il cortile e il corpo; e domande
ignorate che andavano poste affatto scontate
che ci prendono in seguito per niente.
quelle già navigate, simili alle barchette di carta puntute
ma tozze che nel lungo flusso - e riflusso -
restituiscono un foglio impregnato, non il rigo diritto ancora.
La vie est un bien-être pernicieux, mon vieux!)
***
Per dire
Il corso laurea in buona salute
come afferma il mio cardiologo. Conviene
dio, ma in forma vento. Del luogo anche.
Un toccasana il vento. Ma una lama
è presente. Breve e affilato passa
diventato ormai radente. Una lama
che combina altro alla pelle. In città
si raffreddano vetrine crude. Lame
che si innestano nelle ombre cupe.
Per questo il corso indossa vetrofanie
scontate che urlano. Non ho due soldi
per dar loro ascolto e le orecchie si barattano
solo a voce. Ho cuore e polmoni
e muscoli polisemici nei piedi
che dovrebbero essere nudi al verde
(devono capire i messaggi del terreno)
ma sono lontani dal clamore dei gesti polemici
- non tirano calci, diventano commenti di strada -
dando l'idea che c'è un efficace parlamento
solo se guardi altri vuoti. Mi sento in debito
con questo secolo, ma passerà in tempo.
Per ora metto in un bicchiere la ricercatezza
delle fontanelle a getto. L'afa estrae liquidi
da ogni dove: scova ed estrae l'acqua
che nemmeno mi accorgevo di avere
a disposizione. Possibile siano tante gocce?
Sopra le ciglia la seccatura che mi coglie.
E forma pozze su pezze di cotone.
Che cogliere dall'ombra se non il solo
ha senso che la forma?
***
A capo di buona speranza
Ci sono più oggi sulla sabbia che orme
umane in tutti gli altri giorni. Umano:
me ne accorgo quando ti avverto che
dentro di me c'è ovunque un uomo,
malumori compresi; e cerchio alla testa:
nessun miracolo somiglia alla morte
- chissà perché non se ne esce. Non è
il mare e non è il pesce, nemmeno l’amo.
O se ne corregge il risultato o il nome
è più angosciante di calendario.
Volesse dio un tipo diverso - un fine
adescatore, un tafano della pesca -,
non me ne andrei così presto. Normale
che serva altrove. Servo alla tomba
meno di un crisantemo al sole.
Dal momento che mi desti aria
e gonfio mi alzai goffo dal primo confine.
A distanza di molti lĭ, padre dei tufi,
anche questo bacino si svuoterà.
Un lĭ è pari a circa 360 spazi, meno
dei confini delle stagioni e passa.
Quanti ancora da fare? Volesse dio
solo i suoi stessi tipi, farei la salita
senza l’acqua alla gola.
***
Così per
La notte ci ha superati. Quasi doppia
della sua età è la gente su cui si spande.
La rotazione del pianeta in pieno vigore
rende possibile che ci sorpassi la luna
senza alcun freno. È così veloce
che si squarta per scomparire o
rifarsi intera eccetto subito.
Guida con lucidità i tentacoli luminosi.
Le idee come flute vuoti, la torridità
versata in terra. Il fulcro della sete
non so dov’è. Fa leva sulla mente
l’arsura del riso. Le labbra strette
sono al confine del campo muto.
La parola secca da che astro è presa?
La percentuale di sedute legate alle stelle
è pari a 7 su tutte. Ma sono talmente forti
che una sola non nuoce al giorno, anzi
lo segna. Siamo diventati una specie
ricca di schermi e ascolti, rovine rifiuti scorie.
Che altro si conserva? Le pagine
sono traumi rimasti che si stringono
una all’altra come per fare muro
o sotterfugi per rilegare gli scritti
della pinacoteca di led.
***
Non
c’è altro mezzo
Tocchiamo le macerie per cauterizzare la memoria.
Fatta
l’estate, resta la stagione un disordine
di
scoperte in sole basse ondate. Agita
le
mani per scuotere l’afa: nessuna frescura.
Oso
dire: somiglia a pranotentativi
che
sollevano lo spirito, ma da pesci
all'uscio
la riva di Josif che dice. A riva
una
vista ricorda l’acqua com’è adesso:
spalancata
e misterica oltre il dovuto.
Dice
vorrei tentare la notte adulta dell’ottantasei,
nelle
piazzole, tra uno strapiombo sul seno
meno
pericoloso di un perché farlo e si faceva
in
fretta - pure se la chiarezza veniva in seguito.
Del
resto, quando una meteora s’infuoca
come
la vedi, che domanda ti poni? o è desiderio
espresso?
Visualizzi l’aria se c’è un calore
che
insinua tremori: il suo corpo era una tela
o
un nome dimenticato ma perfetto per la sera.
Passano
due giovani fiere con la pelle di stoffa
più
attraenti del vento. L’afa sembra affievolire
nel
nostro mezzo: è che per certi aspetti
si
oscura ogni altro esempio.
***
Shabine
E
che ti posso dire se non ci sei?
Santo
rosso di mare,
un
po' inglese, negro e olandese:
sei
stato tanto, e sei la mia nazione.
E
se anche fossi rimasto, come ti avrei parlato?
Parlare
a te con la mia lingua corta!
Vedrai
Joseph e gli altri, i mie amati. O nemmeno
ci
si incontra in quella Terra di evanescenze.
Sulla
sua soglia si ferma la voce
che
è poi quanto di te resta, oltre la firma in calce
a
parole.
https://www.youtube.com/watch?v=mz-NRI43PWk
***
Astuzia a cielo aperto
Un tempo
invocavo la furbizia dei satelliti
– quei
congegni altolocati meravigliosi funamboli
sul filo
di meridiani e paralleli della Terra.
Ma al
panettiere questo non lo racconterei.
Certo, i
satelliti sono scaltre vedette, civette
di stagno
e leghe intollerabili al vuoto
che li
annienta. Arrivano al panettiere dalla fila
di
formiche che da lassù seguono. Sognavo
di
possedere quello sguardo attento che Giulia
non
distingueva, presa dalle stelle di un tenente.
Sognavo di
raggiungere gli anelli del pianeta
come
colui che li governa; sogno quell’essere
circuito
fino all’esaurimento e intanto sott’occhi,
appena la
callosità della crosta lo permette,
uno spasimante
segreto prova soluzioni acerbe.
Scolla
l’involucro delle sigarette, avvolge le capocchie
dei
cerini, li infiamma fino alla cintola.
Una luna
irrendenta, povera
di senno
e coi miei capelli a volte di stagnola
a volte
di fiamme attende impaziente il proiettile
che non
la prende. In tal senso, la distanza raggiunta
portava
il desiderio più lontano del suo stesso effetto.
Così
succede nella prassi ondulata dei millepiedi:
più zampe
non risolvono il problema della fretta.
Più
cerini non spingono abbastanza la porta del cielo.
Più parole
non aumentano il magnetismo delle stelle.
La
velocità è l’astuzia dell’universo
per allontanare
i corpi senza perdere tempo.
Segui l’esempio.
***
Bitte
Ho visto la
stazza imponente del naviglio
da pesca;
[lu’ig:i] – con quella fonetica di fondo
endemica in
alto mare – lo raccontava
degli
ancoraggi governativi sul molo commerciale,
affollato
di relitti come timorati salati,
con gli
oblò chiusi in piena fronte;
caduti
dai rami del mare, accrocchiati ai tavoli
del bar
da una lucida tramontana: pescatori,
foglie del
golfo prive dell’autunno, inverno da tempo
per lo
zelo dei possenti armatori del gelo;
sono
sbarcati, oh sì, nelle strade acuminate
di una
piatta città meridionale, con zoccoli
di gomma,
guanti di gomma, morti di gomma;
non fanno
più rumore del golfo di guinea,
nè del corno
d’africa, aperti ai pirati e alle flotte
cinesi,
non meno del mediterraneo che ha perso
le squame
per riempirsi di pelle; niente di ieri
è
pronosticabile domani, peripli e isole
solo
pedonali; vivono in disparte
come le
bitte, ormai; la gomena d’attracco
è tutta
la rotta possibile sul continente;
per
l’occhiello della cima, sempre
l’entroterra
assume il debito del molo:
– una
lunghezza tonica, di cantilena,
che sola
aggrega ancora la tribù spaesata – [lu’ig:i],
così il
porto abbottona la sua giacca di lamiera:
chi
davvero ricorda i nafraghi stanziali?
ah [lu’ig:i],
non me ne parlare,
siamo tutti obbligati alla
terra.
***
Il resto della storia
Cominciava
parlando di sè, quindi in
che mondo
vivi, se lasci il resto ovunque.
Il
cameriere tendeva la mano come
una
trappola. La generosità non imbarazza
se è
distratta, se lasci cadere piccole monete
mentre
pronunci grandi parole, ma le parole
per
quanto di valore notevole non convincono
i
panettieri. Lui raccontava una sola storia,
sempre la
stessa, portata avanti nel vivo
dell’azione.
Sandro era al limite del legno
un passo
ancora e ci sarebbe finito dentro,
intanto
però il viavai del corso non lo spingeva
nè quel
nelson’s blood che tracannava ad occhi chiusi.
Amava
horatio e la sua storia era sempre quella:
passare
dal ponte di un vascello all’eterno.
Non lasciò
che i suoi resti finissero in terra.
Fine bugia.
***
Taglio da tagli
L’equilibrio
del tronco è meno stabile
del forno
solare: non illumina all’esterno,
è privo
di fiamme, si apposta nel giorno
battente e
lo intrama di capsule onnivore
che
respirano tra parentesi di terra; è impedito
dalla
vicenda dei taglialegna, ora si è liberato
tranne
che dagli incendi: è la follia e tanta cenere;
il
carpentiere ha un pugno a martello, pianta
chiodi
per assi e perde definitivamente
il lavoro
di secoli; la mano non conta
i
pazienti, il legno – così come se lo aspetta
il
cemento – è troppo morbido per l’edificio
del
vento; il carpentiere ha una fibra di acciaio
agile,
mentre lassù, dove l’anca del cielo
si
irrigidisce e il dio dell’altezza sostiene
l’incantamento
di rare rugiade, il tronco
non serve se non si bara.
***
Incontrarti allontanata
Tipica
espressione del grecale è la strepitosa
andatura
del corso nudo, con lo spartitraffico in fuori,
rigido
fino al punto in cui tocca il transumante
alla gola;
attendevo che parlassi anche tu;
l’amante vocale
nulla può contro la tua consonanza
lontana; il
vento è più debole dell’attesa,
pertanto il
sospiro non fa breccia nel futuro immediato,
parrebbe un
richiamo, ma tu, da un corpo
così
distante, non distingui mai di agire nel sangue,
sulla
carne diramata, aperta a cielo aperto, manca la porta
per gli
occhi e una sete abissale del fatto;
viene il
grecale su quanto resta nel torace:
il colpo
di grazia è il richiamo:
nota gelata,
percussione dell’aria in viaggio,
frecce acuminate
ai calcagni che battono l’asfalto,
arricci il seme secolare
e
novembre è davvero il mese che richiama
l’eternità
al bilancio dei nomi stagnati;
più
frutti assenti imponi alla fame, più incuti
distanze
a sazietà; sei stato percorso e non cadi mai;
davvero
la folata non ha mani per scrollarti
le
spalle? nocciolo della caccia scampata
è la
grazia delle ali, allora, chi ti ha strappata?
vaga il grecale
con zanne più coriacee
della
prima carne staccata dalle labbra.
***
Sottobosco
Una
tattica mediata dagli arbusti,
o dalle
parietali in piena crepa, indica
alle
radici fuoriuscite dal fondo della vita
di
occupare i cigli a secco; e lì ricovera
il più
piccolo topo che abbia mai visto:
un uomo
piegato in cerca di resti, residui
delle
chimere altolocate piantate in terra
come
desideri con parti da incubo; enormi,
che non
mi riesce di tenerli a mente;
il
mercato chiude la domenica, lo stesso giorno
si salda
il patto tra miracoli e alte sfere,
lucine
votive e cartapesta; con ansia accediamo
agli emolumenti
della fede, contrafforte di ogni chiesa:
credi che
un voto cambi il risveglio?
La notte, così come la
vivi,
prepara
le altezze cui puoi spingere il tronco;
in ogni
punto della parentesi solare,
la catena
di ore muove l’ingranaggio vitale:
lo so
perchè da tempo ho escluso la sera
dalla
cura del giorno; integerrima del ricovero,
la disperazione,
amico mio, è la pianta che vegeta
in
ampiezza; simile al muschio, non si alza dal suolo,
segna
direzioni umide verso il perno del gelo,
allarga
la solitudine alle foglie, le sbianca,
finge una
luce che non possiede;
il
mercato è chiuso la domenica: se il sole
fosse
ricchezza bastevole, il sottobosco
lascerebbe i rifiuti –
anche in chiesa.
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