Poesie di Robert Wasp Pirsig

Per tanto questa


Non condanno la rosa o la mora

che scelgono le spine per la difesa

e per finire vengono alle mani.

Assolvo il dovere raccapricciante 

del dolore procurato per sopravvivere 

allo strappo tra noi e il prato 

che macchina il riavvio delle fioriture. 

Sembra che una tiri l’altro dal profondo. 

Come interrata la prima vera mente 

si adopera in visioni per cogliere spunti 

di nuove generazioni di pensieri. 

Tatto e udito dal punto di vista 

dell’odore aspirano all’universo 

nei limiti della radura. In questo 

piccolo spazio, dove si coglie 

il tuo numero per intero, l’infinito 

prende parte perché tanto 

questa gli torna, a noi rimane

la spina del nome. E col nome

conquista una cosa per volta 

all’oscuro che da tempo ci provoca.



***


Reduci dall’umanità


Dove c’era quel palazzone paglierino,

con modanature caserecce e inserti 

indaco più volte che finestre, a stento 

si mantengono le rovine costruite 

dalle bombe. Un bersaglio a mira 

dei droni. L’aria unge l’acciaio 

per reggere il colpo. L’aria si sporca 

senza volerlo: i corpi volanti adesso 

sono artifici macchinosi e letali,

scopiazzano gli ingegneri demolitori, 

ma con assoluta perizia strumentale

eseguono l’ordine di devastazione.

Oggi è il quattromiliardesimo giorno 

che viene à la Terre comme à la Guerre

Nei parlamenti lo sparato è d’obbligo

ma la morte non è in discussione:

aumenta il prodotto interno lordo

di sangue: un rifiuto umano, pare.



***


Be one Per tornare a me ho preso energia da una buona forchetta. Quattro denti infilati in un serto di avori cui mancano quelli decidui per il riso. Decadenza sul serio. In un uomo, qualsiasi umido destabilizza l’orizzonte: diventa vacuo, inaudito, come fiamma la gola! Più sotto,

il ventre lancia a pelli un mare gibboso

e privo di armamenti. Deserto in mezzo:

mi tocca la vela ammainata

sul bompresso. Lì è il punto, lì è il punto sul quale cadono

gli ombelichi e criticano gli occhi.

Pontificatori! Se fosse un male comune il mezzo gaudio mi avrebbe depresso. Che invidia per il vecchio universo più in forma di me.



***


Eroshood


La vita è la freccia che colpisce a morte i sensi. 

Chi è l’arciere? Non Eroshood, che nasconde 

all’anagrafe le sue mire antiche. Sottrae pagine 

dal tuo ricco annuario per dare attrattiva

alla povera età: fastidiosa quanto i ronzii 

della menzogna che relega gli occhi

a fonte di gioia. Cos’è la gioia? Eroshood 

non lo chiarisce, ma tra le pieghe spiega 

lo sconcerto come gong di fine ripresa.   

Torni bersaglio della vita che avresti detto 

grazia d’amore, a scanso d’equivoci

adesso.



***


Come parcheggio


Ho messo le mani tra la roba della notte. 

Il vento ha sfidato a sorte

il giorno sulle foglie del platano 

che pare di guardia ma è solo di legno, 

un’opinione che si consolida

appena diventa chiara l’ora.

Un rombo rado diventa sordo 

sulla tangeziale, direzione calma 

- che è un’altra vita diretta a boh!

come un reperto sotto le dita condite 

di pieghe. 

Si ferma ad un palmo dal polso, 

una data che ha già tutto, proprio tutto nelle more, 

i libri e il cortile, le navate e i sogni, 

roba da notte predetta e che forse 

mi raccoglie o è qualcos’altro

che uscirà in fiori.


***

Curiosità da non credere


L’arcobaleno raccoglie i gradienti 

del genere luce scomposta 

in nastri; nastri da regalo privi di nodi 

che si tengono insieme da more. 

Sempre bianco come nient’altro 

il gelsomino lanciato dal sole. Vivaio

di fuoco, serra il celeste impero. 

La curiosità tratta l’attenzione 

con un occhio particolare. Insoddisfacente

nonostante l’organza in giro il raso a volèe

e il fresco cotone di ampi sorrisi.

Dai loro punti interminabili, le voglie

prendono le stelle con rotte instabili 

non a vista. Si nascondono, in una parola.

Le sorprendiamo e ci sorprendono.

Abbiamo potenti visioni, ma svaniscono 

in fretta quando indichiamo l’autore.

Un dito sollevato al cielo crea un vuoto

d’aria per l’appunto. Chi altri lo legge

oltre l’occhio curioso delle penne?

Su di un muretto del parcheggio, 

una coppia si sottopone al giudizio 

dell’ombra per un po’ di ormoni:

in genere sembra un luogo comune

ma a bassa voce si crea il deserto 

intorno. C’è un miraggio in corso

e qualsiasi cosa mostri si scompone.


***



Il cortile superato dal corpo

(Il bullone infantile, e il perno su cui avvitava,
nell’approssimazione di uno spazio apprendistato
- ricordo ero tale o che altro significa animare il presente
di una sembianza posseduta tra date capesante
svuotate del mollusco rimasto.
Oh, che bel bocconcino è stato!)


Le ragazze avevano calamità inconsapevoli,
delle quali si diceva, sognando anche.
Ancora mi chiedo quale effetto ebbero 
le prime volte del nailon sotto le gonne 
dentro di loro.
Che cosa le rendeva più sicure? L’abbandono
dei calzini corti o il primo bacio sulla scala A?
A me capitò vicino l’albero di giuda,  a bordo
dell’aiuola con la forma a u, e, diomio!,
il tremore mi colse più minaccioso del cielo nero
che spodestava un grande giorno. E a letto poi 
non c’era battito che non suonasse da uomo. 
Ci sono segreti nella femminilità che superano
l’accordo tra il cortile e il corpo; e domande 
ignorate che andavano poste affatto scontate
che ci prendono in seguito per niente.

(Si ruba al calendario più che le pagine da navigare
quelle già navigate, simili alle barchette di carta puntute
ma tozze che nel lungo flusso - e riflusso -
restituiscono un foglio impregnato, non il rigo diritto ancora.
La vie est un bien-être pernicieux, mon vieux!)




***

Per dire

Il corso laurea in buona salute 
come afferma il mio cardiologo. Conviene
dio, ma in forma vento. Del luogo anche.
Un toccasana il vento. Ma una lama
è presente. Breve e affilato passa 
diventato ormai radente. Una lama
che combina altro alla pelle. In città 
si raffreddano vetrine crude. Lame
che si innestano nelle ombre cupe. 
Per questo il corso indossa vetrofanie 
scontate che urlano. Non ho due soldi 
per dar loro ascolto e le orecchie si barattano
solo a voce. Ho cuore e polmoni 
e muscoli polisemici nei piedi
che dovrebbero essere nudi al verde 
(devono capire i messaggi del terreno)
ma sono lontani dal clamore dei gesti polemici
- non tirano calci, diventano commenti di strada - 
dando l'idea che c'è un efficace parlamento
solo se guardi altri vuoti. Mi sento in debito 
con questo secolo, ma passerà in tempo. 
Per ora metto in un bicchiere la ricercatezza
delle fontanelle a getto. L'afa estrae liquidi 
da ogni dove: scova ed estrae l'acqua 
che nemmeno mi accorgevo di avere 
a disposizione. Possibile siano tante gocce? 
Sopra le ciglia la seccatura che mi coglie. 
E forma pozze su pezze di cotone. 
Che cogliere dall'ombra se non il solo
ha senso che la forma? 

***

A capo di buona speranza

Ci sono più oggi sulla sabbia che orme
umane in tutti gli altri giorni. Umano:
me ne accorgo quando ti avverto che
dentro di me c'è ovunque un uomo,
malumori compresi; e cerchio alla testa:
nessun miracolo somiglia alla morte
- chissà perché non se ne esce. Non è
il mare e non è il pesce, nemmeno l’amo.
O se ne corregge il risultato o il nome
è più angosciante di calendario.
Volesse dio un tipo diverso - un fine
adescatore, un tafano della pesca -,
non me ne andrei così presto. Normale
che serva altrove. Servo alla tomba
meno di un crisantemo al sole.
Dal momento che mi desti aria
e gonfio mi alzai goffo dal primo confine.
A distanza di molti lĭ, padre dei tufi,
anche questo bacino si svuoterà.
Un lĭ è pari a circa 360 spazi, meno 
dei confini delle stagioni e passa.  
Quanti ancora da fare? Volesse dio
solo i suoi stessi tipi, farei la salita
senza l’acqua alla gola. 

***

Così per 

La notte ci ha superati. Quasi doppia
della sua età è la gente su cui si spande.
La rotazione del pianeta in pieno vigore
rende possibile che ci sorpassi la luna
senza alcun freno. È così veloce
che si squarta per scomparire o
rifarsi intera eccetto subito.
Guida con lucidità i tentacoli luminosi. 
Le idee come flute vuoti, la torridità
versata in terra. Il fulcro della sete
non so dov’è. Fa leva sulla mente 
l’arsura del riso. Le labbra strette
sono al confine del campo muto.
La parola secca da che astro è presa?
La percentuale di sedute legate alle stelle
è pari a 7 su tutte. Ma sono talmente forti 
che una sola non nuoce al giorno, anzi
lo segna. Siamo diventati una specie
ricca di schermi e ascolti, rovine rifiuti scorie.
Che altro si conserva? Le pagine
sono traumi rimasti che si stringono 
una all’altra come per fare muro 
o sotterfugi per rilegare gli scritti 
della pinacoteca di led.

***

Non c’è altro mezzo

(Siamo abituati alla monumentalità dagli occhi. E dall'ascolto. 
Tocchiamo le macerie per cauterizzare la memoria. 
Capita, osservando i luoghi più stretti a noi, 
uno stupore squilibrato dai cambiamenti 
che ci fanno passare per ruderi.) 

Fatta l’estate, resta la stagione un disordine
di scoperte in sole basse ondate. Agita
le mani per scuotere l’afa: nessuna frescura.
Oso dire: somiglia a pranotentativi
che sollevano lo spirito, ma da pesci
all'uscio la riva di Josif che dice. A riva
una vista ricorda l’acqua com’è adesso:
spalancata e misterica oltre il dovuto. 
Dice vorrei tentare la notte adulta dell’ottantasei, 
nelle piazzole, tra uno strapiombo sul seno
meno pericoloso di un perché farlo e si faceva
in fretta - pure se la chiarezza veniva in seguito.
Del resto, quando una meteora s’infuoca 
come la vedi, che domanda ti poni? o è desiderio
espresso? Visualizzi l’aria se c’è un calore
che insinua tremori: il suo corpo era una tela
o un nome dimenticato ma perfetto per la sera.
Passano due giovani fiere con la pelle di stoffa
più attraenti del vento. L’afa sembra affievolire
nel nostro mezzo: è che per certi aspetti
si oscura ogni altro esempio. 

(Lui carezza lo spirito, antenato della specie quadrumane. 
Rafforza l’idea che ogni opera rimane intatta 
perchè lo sguardo non la cancella, 
ma niente è più duro del tempo.)

***

Shabine

E che ti posso dire se non ci sei?
Santo rosso di mare,
un po' inglese, negro e olandese:
sei stato tanto, e sei la mia nazione.
E se anche fossi rimasto, come ti avrei parlato?
Parlare a te con la mia lingua corta!
Vedrai Joseph e gli altri,  i mie amati. O nemmeno
ci si incontra in quella Terra di evanescenze.
Sulla sua soglia si ferma la voce
che è poi quanto di te resta, oltre la firma in calce
a parole.
https://www.youtube.com/watch?v=mz-NRI43PWk

***

Astuzia a cielo aperto

Un tempo invocavo la furbizia dei satelliti
– quei congegni altolocati meravigliosi funamboli
sul filo di meridiani e paralleli della Terra.
Ma al panettiere questo non lo racconterei.
Certo, i satelliti sono scaltre vedette, civette
di stagno e leghe intollerabili al vuoto
che li annienta. Arrivano al panettiere dalla fila
di formiche che da lassù seguono. Sognavo
di possedere quello sguardo attento che Giulia
non distingueva, presa dalle stelle di un tenente.
Sognavo di raggiungere gli anelli del pianeta
come colui che li governa; sogno quell’essere
circuito fino all’esaurimento e intanto sott’occhi,
appena la callosità della crosta lo permette,
uno spasimante segreto prova soluzioni acerbe.
Scolla l’involucro delle sigarette, avvolge le capocchie
dei cerini, li infiamma fino alla cintola.
Una luna irrendenta, povera
di senno e coi miei capelli a volte di stagnola
a volte di fiamme attende impaziente il proiettile
che non la prende. In tal senso, la distanza raggiunta
portava il desiderio più lontano del suo stesso effetto.
Così succede nella prassi ondulata dei millepiedi:
più zampe non risolvono il problema della fretta.
Più cerini non spingono abbastanza la porta del cielo.
Più parole non aumentano il magnetismo delle stelle.
La velocità è l’astuzia dell’universo
per allontanare i corpi senza perdere tempo.
Segui l’esempio.


***


Bitte


Ho visto la stazza imponente del naviglio
da pesca; [lu’ig:i] – con quella fonetica di fondo
endemica in alto mare – lo raccontava
degli ancoraggi governativi sul molo commerciale,
affollato di relitti come timorati salati,
con gli oblò chiusi in piena fronte;
caduti dai rami del mare, accrocchiati ai tavoli
del bar da una lucida tramontana: pescatori,
foglie del golfo prive dell’autunno, inverno da tempo
per lo zelo dei possenti armatori del gelo;
sono sbarcati, oh sì, nelle strade acuminate
di una piatta città meridionale, con zoccoli
di gomma, guanti di gomma, morti di gomma;
non fanno più rumore del golfo di guinea,
nè del corno d’africa, aperti ai pirati e alle flotte
cinesi, non meno del mediterraneo che ha perso
le squame per riempirsi di pelle; niente di ieri
è pronosticabile domani, peripli e isole
solo pedonali; vivono in disparte
come le bitte, ormai; la gomena d’attracco
è tutta la rotta possibile sul continente;
per l’occhiello della cima, sempre
l’entroterra assume il debito del molo:
– una lunghezza tonica, di cantilena,
che sola aggrega ancora la tribù spaesata – [lu’ig:i],
così il porto abbottona la sua giacca di lamiera:
chi davvero ricorda i nafraghi stanziali?
ah [lu’ig:i], non me ne parlare,
siamo tutti obbligati alla terra.


***


Il resto della storia
Cominciava parlando di sè, quindi in
che mondo vivi, se lasci il resto ovunque.
Il cameriere tendeva la mano come
una trappola. La generosità non imbarazza
se è distratta, se lasci cadere piccole monete
mentre pronunci grandi parole, ma le parole
per quanto di valore notevole non convincono
i panettieri. Lui raccontava una sola storia,
sempre la stessa, portata avanti nel vivo
dell’azione. Sandro era al limite del legno
un passo ancora e ci sarebbe finito dentro,
intanto però il viavai del corso non lo spingeva
nè quel nelson’s blood che tracannava ad occhi chiusi.
Amava horatio e la sua storia era sempre quella:
passare dal ponte di un vascello all’eterno.
Non lasciò che i suoi resti finissero in terra.
Fine bugia.


***


Taglio da tagli


L’equilibrio del tronco è meno stabile
del forno solare: non illumina all’esterno,
è privo di fiamme, si apposta nel giorno
battente e lo intrama di capsule onnivore
che respirano tra parentesi di terra; è impedito
dalla vicenda dei taglialegna, ora si è liberato
tranne che dagli incendi: è la follia e tanta cenere;
il carpentiere ha un pugno a martello, pianta
chiodi per assi e perde definitivamente
il lavoro di secoli; la mano non conta
i pazienti, il legno – così come se lo aspetta
il cemento – è troppo morbido per l’edificio
del vento; il carpentiere ha una fibra di acciaio
agile, mentre lassù, dove l’anca del cielo
si irrigidisce e il dio dell’altezza sostiene
l’incantamento di rare rugiade, il tronco
non serve se non si bara.


***


Incontrarti allontanata


Tipica espressione del grecale è la strepitosa
andatura del corso nudo, con lo spartitraffico in fuori,
rigido fino al punto in cui tocca il transumante
alla gola; attendevo che parlassi anche tu;
l’amante vocale nulla può contro la tua consonanza
lontana; il vento è più debole dell’attesa,
pertanto il sospiro non fa breccia nel futuro immediato,
parrebbe un richiamo, ma tu, da un corpo
così distante, non distingui mai di agire nel sangue,
sulla carne diramata, aperta a cielo aperto, manca la porta
per gli occhi e una sete abissale del fatto;
viene il grecale su quanto resta nel torace:
il colpo di grazia è il richiamo:
nota gelata, percussione dell’aria in viaggio,
frecce acuminate ai calcagni che battono l’asfalto,
                        arricci il seme secolare
e novembre è davvero il mese che richiama
l’eternità al bilancio dei nomi stagnati;
più frutti assenti imponi alla fame, più incuti
distanze a sazietà; sei stato percorso e non cadi mai;
davvero la folata non ha mani per scrollarti
le spalle? nocciolo della caccia scampata
è la grazia delle ali, allora, chi ti ha strappata?
vaga il grecale con zanne più coriacee
della prima carne staccata dalle labbra.


***


Sottobosco


Una tattica mediata dagli arbusti,
o dalle parietali in piena crepa, indica
alle radici fuoriuscite dal fondo della vita
di occupare i cigli a secco; e lì ricovera
il più piccolo topo che abbia mai visto:
un uomo piegato in cerca di resti, residui
delle chimere altolocate piantate in terra
come desideri con parti da incubo; enormi,
che non mi riesce di tenerli a mente;
il mercato chiude la domenica, lo stesso giorno
si salda il patto tra miracoli e alte sfere,
lucine votive e cartapesta; con ansia accediamo
agli emolumenti della fede, contrafforte di ogni chiesa:
credi che un voto cambi il risveglio?
                        La notte, così come la vivi,
prepara le altezze cui puoi spingere il tronco;
in ogni punto della parentesi solare,
la catena di ore muove l’ingranaggio vitale: 
lo so perchè da tempo ho escluso la sera
dalla cura del giorno; integerrima del ricovero,
la disperazione, amico mio, è la pianta che vegeta
in ampiezza; simile al muschio, non si alza dal suolo,
segna direzioni umide verso il perno del gelo,
allarga la solitudine alle foglie, le sbianca,
finge una luce che non possiede;
il mercato è chiuso la domenica: se il sole
fosse ricchezza bastevole, il sottobosco
lascerebbe i rifiuti – anche in chiesa.

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