Poesie di Dereck Louvrilanmè



Inseguendo il presente (testo)


Certo che al mondo fatti non mancano

a vivere come bruti, ma chi segue virtude

e conoscenza è tremendo per sommo conto.

Come sempre tiene banco il mattino solo 

perché ha l’ora in bocca. Usa le lancette

per pungolarmi al risveglio, ma il salto

tra due raggi al confine del buio intenso

è stato compiuto da fermo, disteso dal fiore 

della sera: la camomilla non è permalosa 

se preferisco la melissa per la notte 

di congetture a frammentazione e sirene.

Così riescono i sogni e gli incubi: provo 

a fermare i primi per fuorviare i secondi 

dall’attimo che risuona nello sterno. Tuttavia 

ho cura delle scarpe che reggono all’attrito 

tra il cammino inevitabile dell’orologio

e la resistenza all’ignoto. Il respiro è tormentato

dallo scendiletto, ormai! Come se l’esistenza 

fosse giunta a quella lingua di terra

che spiega perché restino così tante lettere

per i raccoglitori di storie a tappeto.



Reduci dall’umanità

Dove c’era quel palazzone paglierino
con modanature caserecce e inserti
indaco più volte che finestre, a stento
si mantengono le rovine costruite
dalle bombe. Un bersaglio a mira
dei droni. L’aria unge l’acciaio
per reggere il colpo. L’aria si sporca
senza volerlo: i corpi volanti adesso
sono artifici macchinosi e letali,
scopiazzano gli ingegneri demolitori,
ma con assoluta perizia strumentale
eseguono l’ordine di devastazione.
Oggi è li quattromiliardesimo giorno
che viene à la Terre comme à la Guerre.
Nei parlamenti lo sparato è d’obbligo
ma la morte non è in discussione:
aumenta il prodotto interno lordo
di sangue: un rifiuto umano, pare.


Come funziona il morto

C’è pericolo che si perda l’equilibrio,
che una colonna diventi collana
di una città a nome del Paese: un nucleo
urbano con le bandiere sterminate.
(Quando cito “nucleo”, l’aggettivo
cui rimanda esplode fuori luogo
e guardo e tremo per i figli in fumo.)
Il calendario non sembra coinvolto:
volta pagina la brutta storia,
si sfogliano marmi e i numeri
sfidano il permesso dai ricordi.
Vedo tutto dall’oblò sul mare d’Azov:
i led rendono liquido quel che muore
e noi sopravvissuti a pena scomposti.

Contrazioni


Cosa c’è nell’intensa azione del viso
che sostiene il rossore ma non perde
occasione di sbiancare? L’ammore
colora un greto sommerso da rovesci
e seccature. Noi lo attraversiamo
come i fiori attraversano la letteratura:
belli sempre ma abbandonati per inciso.
Ammore è un torrentello increscioso
dovuto alle precipitazioni frequenti
in percorso dannatamente breve.
Chi ha messo il myosotis a pagina tot
e pestato la corrente in quel guardo?
Lì, proprio lì, lasciammo orme sull’acqua.
Avevamo costruito un ponte con la lingua
così da traversare le arterie evitando
i patemi del traffico d’organi in genere.
Ugualmente il corpo aveva apparecchiato
i suoi dipendenti con la stoffa che aveva.
Una conoscenza tardiva, come l’età e il lockdown,
mi dicono che ammore porta contrazioni
pericolose e potenti, messe in gioco
da un sospiro appena letto.

*

Del chiosco


Per quanto provi a battere le palpebre
gli occhi non vincono la sonnolenza
e una frase quale “Dormo in piedi
come un cavallo”
è uno stato di forma.
Inoltre, il bancone accetta i gomiti
poggiati sul suo livore. L’attesa
si acquatta dove beccano i piccioni.

L’uomo ha messo l’anima nel distributore
nel quale il ghiaccio giubila lo sciroppo.
L’anima è il fossile che sopravvive
alle intenzioni dei bicchieri. Ma l’anima
parla da saputella del vigore. Per il distributore
ci voleva fegato: l’inedia non è la danza
dell’acqua liberata dall’attitude al freddo.

L’uomo conta e stima i cestini, sacrari
del monouso. Resi delle secche labbra
che per altra via contaminano l’ambiente:
oggi, cinque o sei, lo hanno messo
al centro della sete e del ristoro conveniente
ma più che il mantesino immacolato
l’anno va in bianco da più di un mese.

I polmoni pompano il calore in circolo.
Sangue che dovrebbe bollire ma gela
all’ombre del chiosco. Lui pensa che il sole
aumenti l’attrazione, benché la massa
nella rotonda sia ridotta, e che induca
al doppio gioco tra desiderio di spegnere
la sete con le tasche lise e l’acqua pubblica.

Pensa di doversi occupare della fontanella
e si apposta disteso.

*

Voci in confidenza

- Se non hai altro da fare, io ti consiglierei
di fare altro. Dice, sporgendosi dalla nota
che altro non era se non colletta di suoni.
Così la nota grave mantiene il timbro
della voce, la sua, ricca di tendini. Tesi,
fuoriusciti tirando le cuoia. Tese, mano
a mano da qualche parte lo spirito
compresso lentamente si distende. Dalle
mani alzate, ricordo, l’intenzione. Di farsi
guanti del mio sangue - non se ne parla
nel ricordo stesso: nè con la lingua dei conciai,
nè per confonderle con la preghiera. Più
di un voto, come d’altro canto voi. Lettori,
stranieri per poco, poi clandestini: così
vi avverto. Fermo restando che mai si capisce
compiutamente un altro e mai ogni altro
appare uguale io per adesso. Per un momento
può bastare la condiscendenza (quasi a dire).
- E qui mi abbandono risposi allo stesso tempo
per altro.


*

Epica dell’attrazione

Il satellite si squarta; e quasi una fetta
ci tocca con approssimazione aperta parentesi.
La luna si muove da macina luminosa
in un fiume albino che la fa ruotare
e trae a sé il fior fiore del mare. Il pesce
San Pietro pesa la vita secondo Archimede
e l’avvia al principio del nuoto. Il mare,
antenato di ogni destinazione, è un tratto
in comune alle onde. Il molo duole
quando gli sbattono contro - da che parte?
Inspiegabilmente porta altrove. Che c'entra?
Amo il fatto che mi diede tempo. Nato
non fui a viver come eterno, ma per seguir
te a momenti. Amo il trasporto
che mi abbandona sullo scoglio, infine.
La cresta sbatterà di sicuro, di sicuro
ci metterà la faccia l’abile spirito che sguscia
per rifarsi sorgente. Sicché ogni foce
succhia, ogni foce ha una mammella in terra.
La luna, faccia in ballo fine a se stessa,
antenata degli antenati dei discepoli,
priva di tentennamenti della guancia lattea
affollata di efelidi: solo per questo
riceve il bacio da un telescopio: sfruttamento.
Luna a breve e l’altro a lungo.


*

Tornio al lavoro


Oggi ho disegnato un marchio. Il tizio
mi ha scelto nel nome del padre nostro.
Non lo pregai di venire da me, come
non si invoca la sveglia nella notte.
Essere fratelli è stato a piedi nudi,
ma non si sta in piedi da soli, fratello.
La commissione parlava chiaro: devi metterci
l'anima però l'anima non si spiega a parole
nè per grandi linee. Il simbolo sulla carta
mena visioni per aria
così uno schizzo si riduce a vista.
Ora, una matita è un’affettazione del foglio
mentre sul monitor scappa di mano.
Qualcosa trae dal nero una forza luminosa.
Io trovo il simbolo e dentro altri simboli:
per ogni geometria illustrata dall’inchiostro,
l’estro adopera il punto in cui sono
per generare i punti del creato.
C’è una melagrana, c’è un’onda, c’è l’ospitalità
del mare nostro che il padre appare disteso.
Il disegno mette mano ovunque, sequenzia
ogni figura complessa finché le grandi linee
non raccontano altro: questo nistagmo
lavora fino alla nuca e attornia
privo d’arti, il mestiere di vivere;
e più difficilmente l’idea è resa.


*

Che viene dopo


Ci sarà sempre un disegno e poi il gesto
di temperare la punta del miracolo
nel legno: la gemma appare
chiodo sul tronco crocefisso
al lavoro di diffusione.
Che comunicatori tolleranti sono i fiori vs gli occhi!
In special modo alla mano
stemperata quella tesa
sui capelli corvini del compianto
giovanissimo amore,
che non è stato
mai ricercato nel verde in calore.
C’era un disegno che stufava, allora?
Divenire oggi dolore.


*

L’artefice di tanto


Ho messo il silenzio nel soffiato.
Normalmente il seme scaraventa
nel panino tutta la farina del suo sacco
e il rumore della macina
crea l’effetto farfalla in mente
per i millemila pensieri in campo.
Me ne nutro senza risparmio.
Lo accompagno con sorsi di primitivo
e la lingua fa un leggero schiocco.
Non mi curo che le sillabe sparse
siano o meno raccolte, il silenzio
è così diffuso
che ne posso seguire le molliche
per dare pane al vento.
Anche breve, sottile
come un fazzolettino usa e getta.
Il silenzio è una farcitura amara
al gusto di zenzero e assenzio,
ma l’artefice soffia in testa.


*

Ermete Trismegisto nel cortile fermo


Che razza d’acqua è questa? Piatta, 
in posa da granito. Stentorea per un lungo tratto 
- passo su quanto affiora come penso.
La conoscenza si innalza ben oltre qualsiasi
punto di arrivo - e in più avanza.
Ormai anche l’acqua è diversa tra una razza e l’altra;
e traversarla implica un corrimano tra un dio
e il prossimo - pure uno solo con se stesso
dov’è riposto, come un libro illegibile
aspetta una mano che lo scelga.

Ho preso visione dei cinque decenni e migliaia
di secoli. Ho ascoltato invocazioni da marmo,
ho risposto da muto dipinto come curvo,
ho saldato le voci con velocità.
Un orecchio profondo mi fa sbarcare che tipo
le fascine autunnino prima al verde
prese dalla miseria quando si legna;
sapere significa aver visto tanto - io,
messaggero distratto dalle trombe dell’universo
che per me è questo vociare indistinto
venuto alla luce da occhi neri - e tocca ancora i sensi.
Mi dà una mano l’idea che tira un dio - preambolo
del verbo dentro le forme.


*

Edward Leedskalnin


Ho potuto spostare le pietre, grazie a un congegno mentale.
Con gli artifici di secoli tenuti in disparte e conservati
a ruota delle opere magistrali.
Li ho svelati; e le rocce si sono sentite sollevate.
Le ho lavorate - ogni colpo un’attesa,
perché ti attendevo, Sweet Sixteen, e ti aspetto
mentre osservo le ninfee
e parlo alle pozze di sedici anni d'acqua.
Ciò che somiglia al fardello della tua assenza
è quel che passa tra due poli magnetici:
l’amore che ti ricordo e il tuo ricordo senza amore.
Tra questi due solenoidi il mio corpo minuto è ora.
C’è magnetismo nel rifiuto - l’addio calamita
il moto perpetuo dell’amante da un abbandono all’altro.
Mi è stata d’aiuto la Terra, con la sua energia incondizionata.
L’energia che la mia leggerezza ha valutato a forza
di baci non dati,
adesso libera nel suo bacio
come avrei voluto venire dal tuo.


*

Makoko (o di una lacuna africana)


Perché scrivo di te, chiuso nel mio guscio
in similpelle? In un perimetro murato, detto
per casa, l’anima è stabile, seduta stante.
Una finestra fa risiedere il mondo qui dentro.
Sullo schermo una piroga àncora tra palafitte
curve: ma come cazzo si ergono dall’acqua?
È Makoko. MA-KO-KO, nemmeno so dove
va l’accento, se su pene o su malarie.
Incerta e ignorata, come il numero angelico
dei canali televisivi documentati a più riprese.
Ne so poco, anzi: meno di te. Soprattutto qui,
i pali in sesto sono retti, dai ritti marci,
e forniscono l’habitat ai molluschi
- questi che vivono a frotte, presi alla gola,
come morti alle volte. Come sgombri
richiesti all’acqua perchè la terra non basta.
Le conchiglie non risiedono per scherno
tra le suppellettili del deserto che fuggono,
impietrite sul tronco cavilloso delle dune.
Finanche la carne si scaglia ai pesci
e affonda nella lacuna la corrente e la spina.
Lacuna, o laguna. Umana, o naturale.
Affare, o sciagura. «Qui si trova di tutto.
Tranne una sepoltura.»
L’acqua è una tomba
paradossale che tiene in vita i galleggianti.
Una pesca miracolosa della malora.
Ho letto di sardine spinate di fresco e andate
in fumo, dal loro punto di vista salubre.
All’ora dei coloni il gin tonic nasceva qui
ma qui non si porta l’aperitivo. Quindi
è necessario che scriva, perché si veda
nel lacero-contuso blu la miriade di rifiuti
buttati ai pesci.


*

Collima all’altopiano


Dalle pietre ricevo un saluto che rotola
e almeno un mondo precipita nell’orrido.
La risalita del sasso è un desiderio che rantola
mentre ancora cade e cade e dal ripido
salto nel futuro senz’appoggi sgaiattola

l’arrampicatore al tramonto. Grida fanciulle
su dalla goletta già giocano agli adulti
prima di scoprire che la goletta è una burla:
occorre una gola per rispondere all’insulto
di quegli onnivori che rubano fin dalla culla.

Gli adulti, cioè io e altri vecchi tafani
che alla questione del tempo hanno tolto
il dovuto, già vendono il prossimo grano
che mai da loro coltivato è invece raccolto.
Ne parleremo da sotto la terra con le mani

che cercano la colpa in quanto dissolto.


*

La città dei vincoli stretti


Fai un’opera caritatevole: legami
al tuo nome. Prima, però, indicami
la risposta che dà il vento ai vincoli
incurante della fisionomia dei voli.
E che io sia una vela lo testimonia
l’amore per il mio albero di terronia.
Sono della razza con la fronda alta,
una sfumatura di azzurro che esalta
l’aria quando ammattisce torrida
per indovinare la bocca più lucida
- nonostante le labbra alla luce.
Poi la corda serra in gola e induce
a fuorviare la parola ascolto:
quel che entra dal padiglione è tolto
dal quotidiano e spinta solo
dagli strilli, benché in volo
tutte le parole muoiano a frotte.
Bei santi quelli delle edicole ridotte:
somigliano ai passanti come si deve,
taciturni al netto del rumore greve
come chi ignori il lordo pro tetto.


*

Privilège du Roi


Il Re era in barca completamente
ma la Regina, più realista e solidale,
fregava le mani con eleganza formale.
Soltanto al giullare vennero in mente

i cavalieri in cortile fermi da giorni
aspettando di avere una cavalcatura
adatta alla natura della buona cura
dimodoché il Re in sè facesse ritorno.


*

È duro, ma morirà; e durerà a lungo


Non c’è notte per il sole
finché gira così. E non è vita
come la pensiamo, è un girotondo
senza fissa dimora: ci trascina
un vagabondo che non ha occhi
se non percorrere. L’amore?
Una trappola per stormi, fatta di congiunzioni
tra energia e materia
che viene a corredo quando può.
Come quella ragazza, magari, che chiamavi stella
dalla lingua di fuoco appena lambivi
la sua gonna benevola.
Come lei, magari, che nel suo parco di pianeti
fissa da lontano i più maestosi
e quelli devoti ai suoi piedi
li incenerisce con l’indifferenza di tutti i soli.
Lentamente ci lascerà riprendendosi anche i vuoti.


*

Mi sta addosso per un tratto


È un contenitore di serie a parente.
Non so dire se sia una cella: non ho lenti
capaci di trapassare vestiti
e carni; e scoprire come di battiti
nel torace. Quindi mi informo di uno
per altro e raduno
memorie in cui tirare il fiato
e basta. Duro a dirlo, ma sono ignoto
e dell’ignoto conosco il vuoto.
Sapete, cerco un appiglio dov’è appeso il lume
la china che sappia fare volume
o che porti un piccolo segnale:
- ehi ehi, sono quiiiiiiiii… (la “i” è lunga per un vizio dialettale).

Date le circostanze attuali, rispondo agli echi,
ormai abbandonati in favore dei like.
Siamo voci singolari in uno spazio singolare,
su di un pianeta che pare di pari, ma non lo è, però pare
singolare, una serra più fragile dei petali che protegge.
La mia guardia del corpo è lo spirito che regge
la resa a parole. Parole maratonete
che come Bikila sentono la sete
quando corrono scalze all’orecchio lunato
senza mai lasciare il ventre provato
- un baco che non si libera del bozzolo
e solo per brevi tratti si coglie a volo.


*

Chi mi ha chiesto una cura


La strada non muta la meta. È comodo
per riguardarsi. È sufficiente il modo
di coinvolgere la lattaia che portava
il nutrimento alle porte. Nemmeno si vedeva
in piena luce. È importante
ci sia stata, ma non c’è. Come tante
polveriere, come i coppi sugli spioventi
e bartali al Col du Galibier che lo sostenta.
Le mucche sono munte dal metallo
eppure è difficile tirare in ballo
che abbiano una salute di ferro.
Chi ricorda l'ape Elvira dalle borse trarre
il tintinnare del pascolo dal sacco elastico?
Voi non l’avete vista bussare, ma io la sento e fantastico.
Viene in mente che il vetro fa compagnia
e la plastica solitaria è una pessima spia.
Il mezzolitro ciarliero rivoglio
che imbianchi la lingua al risveglio.
Cos’é la primavera per questo motivo?
L’aria trasparente dal candore primitivo
che traduce in sanità una parte di me.
Quella parte invariabile che
non prosegue nel seme. Bisogna racconti
della mia arnia. Bisogna che la rifondi e confronti.
Penso a quando il verbo automatizzare era inutile
per quanto ciò che è resto umano sembri infantile.
La creatività era una maraviglia a tutto spiano.
Oggi si spiana tutto e la maraviglia è una rana.


*

Gira la carta del sogno



Fosse vero!, dite. Che ne sapete?
Io ero lì, ero presente: con mio figlio
l’ultimo ed il primo, insieme,
e di fronte tutta un’altra storia.
Marzo era fatto di giorni che pesavano
quanto una barca tirata in secco.
E nei mesi a venire non avremmo pescato
meglio. Sulla tolda dell’anno
tenuto insieme dalle assi dell'ora
la sua bella criniera riccia e bruna
- di notte sofisticata e leggera - , si staccava
dalla mia mano tutto compreso
dal mare a riva senza fare una piega.
Aveva in mente passeggeri
pensieri che salutavo come marina di sbarco
per i miei grevi in terra.
Isole, per lo più, perché i continenti
vecchi o nuovi che siano sono in guerra.
Lui voleva vedere i nidi, peró: palazzi
a iosa: in città ci sono solo ritrovi per uccelli
che fanno le ore più piccole a piedi.


*

Au Sénégal



Molti di noi lasciano la rabbia 
in luogo. Della tomba citiamo 
a caso un sottoposto. La culla
ci porta là. Dondoliamo in tempo. 
In senso stretto vediamo dal tremo 
lo stesso viaggio. Siamo chiose
non c’è altro, Dame. Là
cade il frutto del respiro - anche distante, 
Dame. Dalla sua culla cade là.
Marcisce la polpa dei baci in una bocca del terreno.
Mettiamoci una pietra sopra, così nessuno
ci pensa più.
Per come Miriam lo seppe, non lo avrei detto.
Il quotidiano locale aveva trattato la notizia
usando la parola “decesso” con l’assioma “solitario”.
Eppure, Dame detto Peppe, di seguito citato con “il nero”
- per via della sua “nigrizia” che è come “mestizia”
riferita alla notte dei morti -, lui, il nero scoperto,
dall’alluce glabro alla calvizie lungo 6 ft.
sulla panchina per pazienti, lui, di seguito citato come
tunonavereottantassscinquecentesimiperme?

- così sopravvive a stento, lo so -
non avrebbe voluto il corredo del deserto
sulla pelle.
Ma la vita è peggio che adesso, Dame.


*

In vista di una nuova generazione



L’onda trema in un calice della costa
perché l’acqua ha perso la calma
per la corrente. E nonostante
la roccia abbia il polso fermo
avanza un palmo dall’arenire.
In realtà retrocede fino a perdersi
la sabbia fuorionda, piena di relitti
e di rotte come bottiglie a nuoto.
La spuma sovraeccitata, orgoglio
di una mossa, non è la regola
ma uno strumento del vento in corsa.
Un trucco capace di mettere voce
tra i pesci - intesi come gemelli -,
e sollevare il calice per un brindisi.
Il brindisi agli spiriti fuoriusciti
dal cielo - noi in forma di attesa.
Il cuore sgroppa tra le costole
come un granello sguscia di mano.
Levati di torno, dice, e la mente
va, viene, moltiplica i locali
che ricordano loro. E tra loro appari
tu che non hai visto le alici venire
alle squame dall’azzurro netto. Chiedi
alla terra dove sono le orme dei sacri
e calcale di fresco. Calcale con noncuranza
perché tanta leggerezza muta in futuro di peso
così come nè il papiro, nè la quercia
furono fatti precisamente per l’oceano,
eppure lo hanno percorso a lungo
con un disegno spiegato al vento.


*

Mali intesi


Tutto ciò che possiamo è davanti a noi
ma quello che dovevamo e non facemmo
ci urla dietro. La conquista di altro spazio
non serve al punto in cui siamo. Nessuno
qui ci aveva invitati, ma qualcosa fu fatta
per favorirci. Trovammo il locale ben aerato,
ricco di argomenti da sviluppare, ma poiché
a noi piace dedurre il peggio, fu facile riempirlo
di atti sbagliati e congetture sulla natura
dei segni. Così usammo la lingua dei fenomeni
per le distanze officinali da portare in tavola.
Sulla porta c’era l’avviso di mangiare in modo
adeguato fino alla frutta da evitare. Eravamo
predoni di terra e di mare, violenti e nerboruti,
entravamo in tutte le tane per razziare le credenze
e i forzieri dei santuari: necessità motrice
degli imperi per tutto il tempo. Così iniziammo
a consumare la carne al sangue e poi il grano
e radici e foglie verdi dopo il sacco delle mammelle.
L’acqua era dove il conto faceva passare la fame,
e stimava il piacere, e ne prendemmo a sbafo.
Il vino ci fu portato dopo aver schiacciato
acini nelle giare e più del calice si poteva andare.
Giocammo ai dadi il passaggio del mare
con l’unico risultato che contano gli squali.
Erano chiaramente momenti di un gioco
di razze che non ci farà durare benché duri.


*

Misticanze



Tra gamba e gamba tanti luoghi
comuni e un pendolo strambo
che cerca fortuna.
Lo sguardo ai nembi ne ferma
uno. Un vecchio andante qui
suggerisce l’aiuola nuda
che già conosce la differenza cruda
tra attendo e piscio. L’urgenza, si intuisce,
esplode a zonzo come ne esce
il beccuccio del gonzo?
Potesse mettere bocca l’erba
incurante di mormorii e di verbi
col congiuntivo risicato e fiorito
che già saliva da palliativo.
Siamo fabbriche di scorie e resti
al verde in cui precipitiamo presto.
Al massimo un secolo, un breve ponte
da un bacio all’altro, all’altra
di fronte. Traversiamo il continuo
brusio, terragni come dei quasi dio:
Well, nobody's perfect
if the soul is a concept
of opportunities
beyond the eyes.


*


Ai tuoi occhi oserei chiedere


Hai nello sguardo un occhio di riguardo
per chi osserva
la lunga notte come una celia
della tua faccia ignota ma rappresentata
in millemila volte tronca
per similitudine con la tua sorte.
Credo che sia stato posto nel posto
più ovvio. E’ già ovunque, se lo cerchi
e ti cerchia chi lo ha raggiunto. Quanti
saranno? Grani infiniti e per nulla
sparsi, raccolti in crocicchi pedonabili.
Lì raggiungerò futilmente l’ombra
avuta in anticipo, o venuto dopo
poco convinto dell’armonia
che avrebbe dovuto generare
se non trovata già qui o comunque
presunta nel verbo che ti augurava.
Vieni adesso a parte da qualcuno
e portami la pace in mente a nessuno.


*

Il condominio del fuoco



Al Santo giova l’idea del paradiso fatto a piedi.
La sua fede proclama i sandali aerei. Le piante
gli urlano contro tinte a ripetizione. In me gira
voce che non propriamente il bianco sia simbolo
della purezza: non esiste, o è mera radiazione
evoluta a colore. Coltivo un sintomo di speranza
nel verde, rosso, giallo: dimmi tu quale altro
viene meglio di quegli altri che si alzano da terra
con indubbia frequenza. So che l’arcobaleno
è una prospettiva festosa dello spettro che appare
roso. Roso è dovuto alla goccia che degrada il sereno.
Il sereno fiorito nell’alba in quanto speranza? Rosa.
Rosa è delle piante che non conoscono il grigiore
e chiudono la notte il loro corsivo elegante. Insomma,
stretti fino al sole. Ma al Santo giova l’abito da sera
e sostiene da sole luna e l’altra opera della fede:
la credenza vuota. Prega che abbia un senno almeno
il satellite. Non l’estro luminescente, ma lo spirito
è un labirinto privo di segnaletica e lui,
sul precipizio dei feretri, crede nella parola
a stento quanto la campanula al verde: musica in censo.
Chiedo al ministero dei canonici, alle bugie ferrate
ed alla confraternita delle candele almeno un lumino
per il Santo Fumino di cui sopra il paradiso a venire
che non richiede altra fede oltre l’alare,
l’attizzatoio, la semplicità del cerino, il soffio
oltre il costato e la fiamma a perdifumo.
Inoltre, l’inverno è fuori di sè, geloso non più di tanto
perché dentro cova un fuoco insperato: cambiare
consonante con una effe di legno, presa
di sana pianta da una selva selvaggia e aspra
e forte, che nel pensier rinovi il vero contenuto.


*


Il cognome delle api



Quando apparve la candela c’era già la fiamma.
Il fior fiore dell’antagonismo non bruciava, era là,
in carne: piroclastica ingente, di bocca in bocca.
Venne l’ape, un geometra puntuto, forse l’angelo che parlava
col linguaggio delle cabrate.
Il vento aveva l’aria di buon seminatore e fuochista di talento,
ma era dubbio e nel dubbio l’Altissimo Condizionatore serviva
with a name of your choice,
whit a puff.
L’atomo, e il suo piano industriale, fece presa.
Non ci siamo ancora.
Comunque, oserei dire che l’uomo esplose.
L’olio prese il posto del legno e del fulmine per fare luce fino alla cera.
Il pungiglione puntava il nord, l’alveare si affacciava a sud
e altre contrapposizioni del genere.
Ora lo stoppino è un proiettile, ma ieri non è peggio di domani.
Il termine medio tra loro è: paura; la lungimiranza prende tempo.
Questo era tra i titoli sulla panchina.
In un catenaccio con due chiavi di lettura: qui ti ho amato (per adesso).
Femminile penso, ma alle volte capisco niente.
In quell’attimo coesistono l’amore e il tradimento,
in quel momento un bacio può più del sesso.
Vorrei che la storia avesse qualcosa di vero:
i ruderi sono certi mentre certi ruderi s’inventano.
Amor mio, est in canitie ridicula venus.
La supremazia del ventre ha ragione quando serve
un fremito.
Posso dirti che c’è la stessa calamità nel bacio e nel melo.
Tendono ad un passaggio di stato nel quale gli atomi
si rivestono con ciò che trovano sulla sedia.
Ci allontaniamo di colpo per finire meglio.
E sempre in un colpo può svettare una storia,
svenarsi un corpo, svelare la tresca di tutti i sacramenti
mentre l’anima sverna agli antipodi della vita,
in quel miele che per adesso è ama(ro).


*


Indotto a fiori



Da ovunque venga la viola, in luogo
della buona sorte, apre uno spiraglio
e si lascia cogliere alla sprovvista
da un turbinìo di gemme. Rivoluzione
si direbbe, dal nocciolo duro del susino
che in una notte temperata ha capito
che vento tira. Ma la viola? Sono convinto
finga disattenzione mentre indossa
il suo capo di stagione. Come quei battelli
lungo il fiume o nell’invaso dai barconi
che suggeriscono alla foce dov’è il mare
col battibecco futile tra schiuma e onde.
Fuggendo al largo, le anguille si allungano
e resta a molo una cima a mollo: da capo,
come l’altezza nel triangolo è dal Vertice
una venuta in terra, per dio.

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