La lama
e il ventre
La
lama ha un diabolico approccio già dall’impugnatura che ne fa il pensiero. Come
si liberi mentre è satura di riflessi è un mistero. E’ capace di aprire caverne
o, quando si mostra di taglio, lascia intravedere un profilo dannatamente incisivo sul quale poggia
la magrezza del suo universo.
Il
ventre è un gufo calmo. Borbotta a stento o è cadente. Contiene storie vaghe,
umori scossi, vecchie ipotesi di discarica, qualche pentimento o soltanto il
sorriso della tenia. Il ventre stenta a credere di essere vitale: come ogni
stella esprime una circonferenza incerta.
La
lama trae dalla sua ragnatela di metallo il filo necessario nei discorsi netti.
Se parla di piatto libera la calma esattamente come un petalo ha luce; se urla
dal profilo, domina col freddo lo squarcio aperto in cui si allaga di rose
rosse, o apre la violenta bocca dalla quale evade la ruggine del corpo.
Non
c’è ventre che non sopporti l’onta del pube: in questo è la rissosità della
piazza dei sensi. Il ventre è un manifesto chiaro sulle possibilità date al
torace di avere un portamento austero. Il ventre piega perfino le spalle quando
si espone alla platea. Se non riceve applausi, cala il suo sipario, fuoribondo.
Quanto più la lama si
nasconde, tanto maggiore sarà l’offerta del ventre.
Il fucile e il cucchiaio
Perché
un fucile lavori come si deve occorre l’odio adeguato. Ma pur con certezza di esserne
in possesso deve armarsi della giusta pazienza: non è facile caricarsi a
ripetizione se non si dispone di un bersaglio evidente su cui dirigere le
proprie mire. In questo vi è simile, o dal foro trapassa l’aria come un converso astuto
fuggito dalla regola.
Anche
il cucchiaio si muove involontario. Il cucchiaio che affonda e riempie di sé la
bocca propone una chiara maniera di intendere l’evoluzione dei sazi. Nascendo
curvo e concavo come un cielo al rovescio esibisce la stessa determinazione a perseguire
la setta dei fagioli quanto la confraternita dei ceci. E’ repressivo nei
confronti del brodo. Spesso viene alle mani solo per un boccone.
Sembrerà
diverso il fucile se e solo se preso per il bavero un proiettile gli indichi
senza ulteriore clamore quale colpo lo renda prezioso. Il fucile quindi prenderà
per buona non più la soluzione immediata ed a tiro ma una scelta inoperosa che
freni la smania della cartucciera e per inciso quella dei bossoli nel volersi
liberare dell’ogiva schiantando le ali a chi ha il diritto di mettersi in volo.
Così
si alza il cucchiaio: in un gesto di relativo stupore arzigogola nei limiti del
braccio. Alla fine di ogni raccolta c’è una stasi incruenta che rinfranca sempre
più lungamente. Eppure il cucchiaio coordina ancora la resa dei fossi da cui
evade, enumera cerchi alle grazie della vista, ai gomiti procura la piega del
pranzo a cui aspira: nell’aria trasandata solidifica il vapore acqueo che ci
forma.
Quanto
più il fucile si ricarica, tanto più il cucchiaio raccoglie.
La tazzina e l’ascia
Immagino
già il borbottio dell’ascia quando saprà dell’acquisto di nuove tazzine.
La
tazzina è un elegante inserto da labbra. Convoglia il bordo sull’unico lato del
viso che ricalca. C’è, senza dubbio, una fuga inespressa nel rimanere curva
quando l’uso la spinge nell’acqua. Ma che meraviglia il gusto della notte
ripreso dal caffè e fornito del suo guscio di ceramica! Rimette l’universo nel
suo cilindro: una vera magia. La tazzina esce immacolata dalla tana dei
bicchieri, quei temuti watussi di vetro.
Si
arrabbia di certo l’ascia, che da giorni sfibra con una richiesta di legno
tutti i ceppi del circondario. Ruota a mezz’aria col sibilo della fretta.
Incide sul fusto la caratteristica lisciatura della morte (la morte ama le
scale, ma usa gli ascensori veloci dei corpi).
L’ascia non produce
scorie, non determina la perdita di linfa; in altre parole, il sangue del
tronco non evade. Permane immoto come sorpreso nella sequenza dei colpi. Senza
sepolcro, scopre i nodi per resuscitare, ma muore d’inedia quando non è il
fuoco un sudario.
La
tazzina è molto suadente. Ha una sincronia nel modo di porsi che annuncia la
calma prima che l’anima l’avverta. La pelle vitrea è insieme gioventù e
riflessi. Si distende come può: a volte rotola indifferente; in taluni
pomeriggi, pratica l’inedia; potrebbe
stare ore intere sullo sgocciolatoio con le sue anche alte. La tazzina è una
ginnasta per i due cerchi armoniosi.
Che
se ne possa accorgere l’ascia è un puro accidente. Vive in un cosmo relativo,
forsanche senza più un orizzonte da intagliare. Pur avendo dato assi al mare,
l’ascia, che non ebbe altra vela che mani e braccia, non potè cercare
differente sorte che la nuca. Fu la sua unica avventura di sangue oltr’agiato.
Quel bagno mefitico ritenuto capolinea di giustizia, decretò l’abbandono di
qualsiasi velleità da strumento divino. Oggi, se esce all’aperto, si traveste
da guitto e, dal labbro - la lama - morsicato dai denti dell’uso, tergiversa sui
tagli, di colpo.
La
tazzina accoglie solo il piacere e vede colare il caffè che l’ascia l’acciaio.
Il chiodo e la roccia
Che il chiodo sia a conoscenza delle
vicissitudini mormorate a mezza voce dai quadri è un fatto noto alle cornici che
raccontano fatti visionari di cui sappiamo dalle tele. Ma i chiodi non
fioriscono dove si piantano, piuttosto fissano le coppie d’occhi a tante
meraviglie, a quell’incedere sorpreso che ignora il mantello dei muri, che è lì
appeso: strappato, stinto, mai riposto se non caduto.
La
roccia annaspa aggrappandosi alla precedente. Sfarina l’anima una litania di
polvere e, forse, fa preghiera di durezza da terra. Non può continuamente
adempiere al suo ruolo di vedetta, così, se vibra, avverte con una tosse; una
sommossa d’atomi minerali negli atri dei suoi bronchi. Il dentro del dolore è
un magma che fa della lentezza la sua passione.
Dovunque
il chiodo si lasci infiggere, si perde la faccia per una lingua puntuta; non
trascende, è vero, ma cade in contraddizione nel rumore che provoca il martello.
Poi, il suo fusto assimila le pieghe. Non lo torce la vecchiaia, né l’angoscia
del movimento. Per essere stabile sopporta colpi nel suo asse migliore: se
svirgola, è per un’alta resistenza che gli nuoce.
La
roccia subisce lo spazio, non l’inverso. Vorrebbe stare raccolta in punto com’è
nella genesi. Non si districa dal caos, non le compete il viaggio: nessun
biglietto le dà accesso all’orbita che l’allontana dal suo stesso cuore. Eppure
vaga. Transuma, rigurgita distanze e le oppone alle altezze, risolve il dubbio
delle procedure: s’incammina per dove noi vorremmo senza averne il turbamento.
Ah, quei secoli! Quegli scrosci di millemmi
che fanno la pioggia dell’Universo: la roccia è un calendario esterno, forse un
palinsesto.
Dove
il chiodo buca la mente, la roccia non chiude la breccia, o la crepa.
La frusta e il treno
Nell’alba
in cui alza la sua frusta il sole, si genera il chiaro o il suo nervo; una
crepa scalfisce tutto il rosa perlaceo che avvolge ogni tremendo oggetto; si
informa la vista che un mondo c’è. La sedia aspetta che la casa mi lasci un
balcone. Lo evidenzio: mi sfugge la situazione, perdo il controllo del
panorama, ne esco sui due piedi fino al caffè.
Nello
stesso momento, l’acciaio libera la catapulta delle ruote. Il metallo grigio si
avvita infinite volte su se stesso come per emettere lunghezza, ma si spoglia. Niente
più sarà uguale nel dopo le partenze. Lasciato il punto iniziale, la curva o la
retta che si genera, segnerà lo spazio e il tempo in modo indelebile: né la
frusta rigenera, né il treno riavvolge le vicende.
Ma
l’alba, con il suo alone magro, stimola ogni dorso. Accende il portamento
verticale e lo integra alla schiena, alle menti. La frusta non c’entra, però
esegue. Nessuna luce, ma il suo lampo acceca. Il corrimano della pelle si
spezza: precipita la coscienza, si disloca il carico da sapere, la psicostesia
soppressa: quanto pesi, chi sei, che fai lì, perché non dormi? Lo scenario del
sangue evolve trapassato il lembo della finestra. Una sorta di binario rosso
incanala il viaggio della sofferenza.
Il
treno, invece, sotto il peso del suo unico desiderio redarguisce il passaggio a
livello, sonorizza le stazioni, schiaccia le traverse che lo reggono. Sulle
massicciate il treno vaporizza il percorso; lo mantiene nella scia il ritmo:
ta-tan, ta-tan, ta-tan; include la timidezza nei posti letto: ta-tan, ta-tan,
ta-tan. Da questa nenia si ricava la percorrenza.
Ta-tan,
ta-tan, ta-tan. Fiuuuuuu!
Fshh!,
schiock! Un boom sonico.
Il
tratto arcuato della frusta aggiunge paura all’aria, dove si profila lo
schiocco. Contiene la tintura con cui si copre la prassi della violenza. Il
sigillo del colpo porta il clamore alla bocca, lo fa erompere dal punto più
prossimo al dolore. Catechizza l’insorgere della ribellione. La frusta non ha
parole di pietà e non fugge: sente il colpo e lo inghiotte.
Intanto
il treno manifesta la maternità dei vagoni. Le loro cosce a soffietto espellono
cellule ordinate per compito: le mani alle braccia, i piedi alle gambe, le
illusioni ai biglietti.
Se
potessi scegliere, amerei seguire gli aironi dove collaudano il vuoto.
Il guado e il ponte
Non capita mai che il guado stia fermo sotto al ponte. Non
si tratta quindi di un vagabondo. Né può accadere il contrario. I ponti sono
alti come le vertigini, anzi più alti dei bronchi con cui respira il paese,
quelle cupole rosse che riducono l'ossigeno al vento. Sono anelli ammessi ai
crepacci di traverso. Stanno sulle miriadi di dita che la Terra eleva dai capelli
verdi o dalla pelle grezza, cuspide di troppa indigenza. Emergono sulle valli,
piantonano le rive. I ponti consentono di cucire il volo al piede, la struttura
della distanza alla misura ridotta del percorso.
Il guado teme l’emersione dal fondo: riconosce l'arguzia dell'acqua che lo nasconde.
Stramazza nella corrente veloce e ferma molecole brade nel recinto della pozza.
Solletica il mistero del fosso, emerge come un bacio dalle sponde, lo
evolve quando il flusso dei corpi lo raccoglie.
Il
guado è magro. E' vecchio come la gola, la antecede, anzi, la informa. Ha una
schiena bassa, curva. Ottempera alla secca quando si appoggia sui palmi.
Possiede una libertà espressiva che lo sposta, ma non lo annienta. Il guado è
semplice, è burlone.
L’austerità
dell’arco, la sua continua estensione, l’allungamento di un discorso di pietra
che non ha doveri se non portare sulla schiena le sollecitazioni, gli abbrivi
della feritoria che s’apre nell’area dei monti. Il ponte riscuote l'altezza,
regge la nuova epoca di passi e annienta il salto; non lo esercita, ne è
istituzione. La rincorsa trova lo sbalzo e s’inerpica nel vuoto, slancia la
distanza e pianta la sua freccia tra due dirupi. Il ponte misura la linea
intraprendente della congiunzione.
L’eco dei passi non distoglie il guado dal suo lavoro di diga. L’oppio del
canneto in un fianco estremizza il lato che dorme. Ne impedisce la ricerca. E
si perde anch’esso. Eppure non teme la piena. La sua occupazione incerta gli
offre lo spunto per dialogare col ciottolo. Lo espugna fino a stanarne le ossa.
Non trasporta: riceve le segnalazioni della fonte quando trasmette voci. Quando
lei si secca, lui inaridisce lento e poi si sotterra. Muore al centro, quando
il cuore ritira i polsi dalla vena vuota.
Il ponte, il guado, hanno sempre una spina, come tutte le resistenze del
dorso.
L’aria come un minerale profondo
Sarà
di cristallo, e avvolgente, la figlia della trasparenza, quando poggia la sua
guglia tersa sulle creste e le converte in tempio.
Vi
andremmo osannanti, ma andiamoci continuamente vuoti.
E
sarà poco ovvia, inattesa, quasi incompleta nel dibattito tra gli occhi ed il
panorama elementare disteso nei vetri. Sembrerà una conchiglia rara, l’aria che
si affronta andandole dentro.
È
il diamante reso miniera dagli eoni del cielo.
È
la superficie allegorica dei colori, quello che più meraviglia nel guazzo delle
riprese. Nessuna linea si stronca: sembrano genitrici di punti costanti, mappe
di isole mai viste in chiaro se non finendoci sopra come relitti di quel noi
naviganti senza rotta. Le distanze si comprimono e la misura ha una netta
definizione. Non stringi le palpebre, non estrometti le pupille: traguardi là
dove osservi come se vi arrivassi in tronco. Questo mi consente l’etica del
dove non vivrei perché senza antenne; dove non andrei, giacché le zampe non si
muovono ad onda.
L’aria
chiara è un chiosco di respiri profondi.
Vi
andrei a salti, però sollevandomi ora.
Dunque,
l’aria di cui non t’accorgi è una centrifuga di emozioni. Il suo profilo di
luogo nel luogo esprime la geografia senza peso. Il meridiano che separa l’ora
è poi visibile come una locomotiva priva di vapori. Lì dorme il treno che ti
allontana, lì si accavallano le rotaie di tutte le stazioni. Il verbo dei
polmoni si coniuga senza alcuna attenzione. Forse c’è più di un profumo che la
narice assembla per i bronchi. Forse un corteo di voli agita la sua seta
impalpabile. Forse è doveroso chiamarla col nome più intimo: aria di casa, aria
che non si scompone.
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