Una pausa imprigiona più contenuti.
Il bianco
– e tutto il chiaro in genere –
incorpora
lo spettro e lo evolve a statua di luce.
La luce
si adatta alle giravolte dei fogli.
Mi ha scelto
Rosa da
un mazzo di giorni.
Giorni
incensurati, con la fedina immacolata,
al primo
dito utile.
Giorni in cui lo spazio non contava,
a
differenza degli anni, che sono lunghi
per il
virtuosismo astrale. Ma stretti,
nella
consuetudine di misure sommarie;
quindi lo
spazio va dove si tace.
Nel silenzio
gli
spettri stanno come talee,
il rumore
è la loro fioritura.
Per lo spazio, nel mio giardino eri una torre.
Come l’amore
è l’altissimo
sentimento che vertebra le vene,
disse
Rosa, come l’amore o il traffico in strada.
Un meccanismo pirotecnico
trasforma
il calore in moto; una corda,
l’aria in
suono; le sue parole cambierebbero ora.
Rosa non sapeva tutto questo:
venne a
dicembre quasi che il freddo
sia
vuoto, e lo è, solo che il vuoto è seccante
e non comprende la neve.
e non comprende la neve.
In silenzio
l’amore si
arricchisce di sensi; perché allora,
stupido
io, avevo letto appena l’orario
dei treni
e annunciavo una partenza?
Gli annunci
attraversano
gallerie normalmente taciute
con un sibilo
che scaraventa la bocca
nel
rumore delle stazioni. Sulla guancia
vibra la
ruga del vento: lì si apposta la voce.
Salì l’impazienza
e fu data
pioggia. Venne anch’essa
per trasformare
le pensiline prive di passione.
Serve un paradigma del nero
adatto
all’umore di questo tono: la stanza
lasciata alla
polvere che urla al ricordo trattienimi.
Ora faccio un gesto
più
chiaro: faccio il gesto della porta,
faccio
quel gesto di chi esce al mondo.
Vuol dire
di più
non posso. Dice ci provo e non torno.
Parlerei
per giorni se potessi divellere i gesti
dalle porte.
O, se l’alfabeto fosse un bosco,
il cuore che sfoglia.
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