Ne avevamo anche quintali, quindi eravamo
di peso.
Quintali di sicumera. O, come dice il
devoto: spocchia,
supponenza, pistoni a vapore. Per la parte
voluta
calati in una posa di scena. Posti a
sedere, giudicammo.
Nessuno ce ne aveva parlato. Lo scoglio era
lo stesso canto.
Nel paese le sirene sono sulle labbra di
tutti e i denti
cadono nel tranello del bacio. Dicono che
questa sia
la parola quando accade. La parola osso in
bocca al cane.
Siamo legati al vento. Panni che si
asciugano, in breve.
Il verbo continuare fa di noi quello che
vuole e ci viene
assegnato un tempo rischioso, dalla mafia
degli orologi.
L’inconsolabile lettore portò le braccia
al petto come
per difendere il suo etimo, le trasformò
in chele.
E da granchio, si spostò sul fianco. Non
poteva
che avanzargli la spalla, una quinta di
persona, tanto,
forse un caso, certo non avrebbe perso la
faccia.
Lasciò scorrere il fiume nel suo verso
sentendosi al riparo,
trovò l’ago nella legge, il pagliaio delle
voci disperse.
Sollevò un vespaio. Stette incolume la
spocchia immemore,
orba di tanto filo, così percorsa, attornia
la Terra, all’aria sta.
O si trattava di ricucire lo strappo tra
diverse lingue.
Se in quel momento
un uragano, o un colpo di tosse dal fondo,
avesse scosso
le belle figure tratteggiate, più che la
voce nel miraggio,
da lassù si sarebbe visto come si incazza la
platea,
per tanto, poco.
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