Giorno 1
Prendo tutto il tempo per aprire gli occhi.
I muscoli stentano nella tenebra: chi porta chi
colloquia con la pupilla strabuzzata.
Quando la vespa si è poggiata su di me, la città
non ha proferito parola, pochi curiosi intorno.
Solo quello.
Giorno 2
I muscoli vanno a nozze con un gesto
semplice, la voce - rendo grazie all’eco -
è quel sasso levigato che salta all’orecchio,
è il gioco del rimbalzo sullo spavento,
o grida: la gamba è gonfia, il sangue tuona!
Solo questo.
Giorno 3
La parola è la pietra più fluida: una su l’altra
si adatta per costruire templi, ripari o forni.
Ricavata dalla gola nella quale affonda
diventa un siluro, una torpedine nel ventre.
L’esplosione coglie la mente in piena pancia.
Il dolore è almeno stronzo benché ne esca bene.
Non solo qui.
Giorno 4
Penso che masturbarsi, manipolando il verbo
nel gergo comprensibile a più letture, produca
sementi di vuoto, salti, distorsioni,
una breve scossa, il fremito e brezza.
Mi vedo con soddisfazione di polso.
Guardo i segni dell’incidente come un faro.
Solo adesso, non prima del solo.
Giorno 5
Le parole sono vele inutili
se l’anima è in perfetta quiete.
Ho visto la mia bocca affondare
in un discorso, e dietro, un cormorano.
Il becco segue un pesce vistoso
solo se è il più prossimo. L’orecchio
non vola affatto, come il tatto e l’ombra.
Guarisco già con un altro sintomo
del ginocchio colpito: si piega ancora.
Ancora e solo.
Giorno 6
Mi sollevo e il davanzale cade fuori
da tanto tempo che il panorama conta.
Il voto delle narici elegge il respiro
a tagli di voce. La bocca d’oro, il crisostomo
finito in lamenti, petulante e importuno
serve poco per tenere fronte: alla data, al sonno.
Dovrebbe essere il contrario, ma date tante
croste, il mio corpo assolda fitte schierate
già al minimo movimento.
È solo che non finisce, né finirà a voce.
Sempre
meglio, ed anche conveniente sui fianchi,
qualsiasi luce passi dalla sua orbita
alle tue.
Dalle due
colgo il riso fragile: anche solo.
Immagine dal web
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