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Nasce da me un galoppo a spronbuttato
ventre a tetti e vola o scalpita lo
zoccolo
del verbo sugli spioventi: ma niente è
più
come le tegole. Terrazze: tutto piano e
colmi
rimasti resti del cammin a mente nei
panorami.
Tu vedi lontano
tu sei più lontano, ma vedi
dal punto in cui infossi
la cavalcata? Siamo gocciole da scoli,
forse
da torri, ma abbiamo la stessa natura
dei colmi:
copriamo dove sgocciola la parola
sul suo primo davanzale: delle labbra
avrei detto
anche: la finestra sulla gola fonda.
Mi diverte
scrivere in tanti sensi, in questo modo
non c’è secchezza. Il tono asciutto
lascia
durezza, corrode l’ingresso nel dialogo.
Questo di Simeone
mi colpì: “Egli andava a morire.
Spalancò le porte, / e non
sul chiasso della vita, ma della
morte / sul regno
sordomuto. E andava Simeone/
in uno spazio privo di
spessore.” Brodskij mi
intenerisce, dice dell’Uomo che aveva
visto l’Uomo
annunciato, il Deifinitivo, e uscì dal
Tempio per
restare nel tempo. Brodskij (e altri) misura
la mia pochezza e lo amo (amo anche
altri).
Per questo penso
alle tegole ancora e non mi illudo
con s: non siamo consonanti, per troppo.
Inauguro qui
la drammaturgia della vocale, il
sospiro
dell’opera: perso il coro smarrito
nei luoghi limitrofi a questo, ora il
suono
è uno strumento: non nasce da esso, ma
fra me e te
un rumore fa più scena del sospiro
e se prego anch’io viene un nitrito a
farmi
male dire ciò che ho sempre creduto solo
in vocazione libera.
Le
parole non possono
volare che a stormi nè essere cordoli
lassù:
nessuna mappa conduce all’i sola ma
tante e tante
non àncorano e ancora e ancora
vie infinite l’e congiunge: via il
numero
via la nota via i noti via i nodi via in
un lampo
e tuono a martello sul chiodo fisso
- questa irritante definizione:
morto senza corpo ferito.
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