28 maggio 2016

Della pietra



Prendo una pietra. La prendo in modo che essa si chieda
che mai la sollevi e perché dovrebbe volare sul prato
da un punto all’altro, da una mano al vago.
Prima ero al telefono con il mio cardiologo
e sono rimasto di sasso: stai bene, ha detto, non pensare tanto.

Sento ogni nervo disteso che il pendio ha finora levigato,
vedo nella piccola roccia l’eternità dell’atomo. Immagino
ogni sorta di micromotori nel mio torace. Io so
che un cardiologo non è un’aquila, non spazia tra vette
ma sostiene la mia cattedrale, eppure sento pulsare
la pietra con un leggero affanno. Le dita
la avvolgono come un costato.


Immagine dal web

26 maggio 2016

Chiunque busserà alla porta non avrà le tue mani



Eri dietro le mani. Tu entravi, ma prima
le mani ricavavano spazio: la tua aria una nicchia
nella camera e la poltrona subito.
Quella poltrona bassa e consunta era votiva. Seduta,
crollavi da un'altezza celeste. Da una volta
solo tua. Sulla pelle grattata eri santa, ma di più:
madre angusta e minuta, quasi finita.


Immagine dal web

19 maggio 2016

Sestennio



Governo le narici tra i tuoi odori, sestennio
e posso dirli indicatori o finestre. In qualche caso, il vento sbava
con l’aria di chi più ne trova e più ne coglie – spiffera all'ingresso,
racconta, del resto.

Non ho il polso del tempo
e mi accorgo che l’orologio si ripete – sarà questo il suo cuore senza cuore? –
pertanto accetto suggerimenti: altri luoghi sento – mai indossati ad esempio –
che lanciano un segno potente: la mondanità decaduta, l’esternazione della pelle,
la manomissione dei capi, la lana sintetica – farà freddo d’ora in avanti,
assioma della neve perenne –, il consorzio di premitura del vino novello.

E sarei io la foglia e tu la terra, Terra?

“Sarò chiaro – fu esplicito il cielo, – fino a settembre.
Poi tirerò in ballo il legno. Il tronco tra le secche bocche,   
le dita inanimate volteggiano in modo adeguato dalla superficie.”
Questo disse a lei, o quel che era Terra, me compreso.
E fu allora che mi divenne noto come sia sottile il cielo
se, pur con mucillagini dense, e scuse, non copre l’universo e altri splendori.

Rimane da comprendere le date, come di residenze, dove portano
i rientri a bere le gocce rimaste nel bicchiere.
Io ne faccio divieti da ricordare, blocchi per disappunti,
giudico un errore dalla ricorrenza.
Quanto mi manca, sia di parola sia di cosa che, è un credito. Chiede
una corsia preferenziale, spera di avanzare per attraversare la notte.
La notte è ormai sonno precipitato, riscossione di tremiti.

Vengono dalle strade che lavorano ai fianchi,
ma se affermo che tra di noi corre l’intesa, si sente preso in giro il sole
per quel pallido sollecito che l’umido mai secca.

Passano profumi ormai fuori di me, e questo indica l’avvento
di scie volubili, che avvolgono la mente, dal pentateuco del corpo,
libro annoso in cui si apprende la profilassi del beneamato,
e della nostra sussistenza,
quasi che le tracce utili siano appannaggio di chi inaugura il calendario
come vi arriva, come cancelli a scuola.

Non si va lontano a furia di stagioni, si va
al limite del possibile. In sostanza,
fa bene il limoneto a liberarsi dei gialli intensi. 

Immagine dal web

17 maggio 2016

Cambia il cielo, siediti ora



Se riconosci la rosa, la rosa insolita,
la sua immacolata concessione di spine e raso,
puoi vederla fiorita prima che avvenga.
Precede il bulbo e lo stelo robusto, da torre.
Non avere fretta, mi dico, devi sapere attendere:
una rosa non è un treno, nonostante il metallo
rumoreggi nella potatura violenta
come l’ultima fermata. Quando vorrai
starà addossata ai ballatoi. Si affaccerà
dal primo mese utile. Non è un treno,
può venire in terrazza. Penso a chi mi aspetta.
Sono convinto che una carrozza indichi volontà
di scoperte mansuete. Ha una prospettiva,
non sempre insegue gli eventi.
Non sono la rosa, non sono il treno.
Benché sia carico di passeggeri
amo la singolarità della neve.
Quando copre la fragilità dei luoghi,
quando non li gela ma sobilla la memoria
e diventa vetro. In verità, puoi lasciare la terrazza
e venire dentro: è mezzanotte, una meraviglia alta
lucida i muri dalla porta fredda.
Nessuna paura: se non viene la rosa,
altri fiori porterò con me. Mi farai entrare,
dimmi: libererai un bacio e mi farai poggiare sulla tua bocca?
Non sono la neve, amo la rosa che diventa stazione.
Questo verbo: amo, è o non è il tuo treno?
Non sei solo la rosa, ma rispondi come neve
al limite del Tirreno. La porta del  golfo
si apre con niente e affonda la rosa.
Passano stracci alti e grigi, appena cupi,
ma non riescono a dare un senso di nubi.
Cambia il cielo, siediti ora: sul ballatoio,
sulla terrazza, vieni in stazione.
Da quella porta oltrepassa una porta sola:
entra, mezzanotte passata
e se ne andranno le distanze
lo stretto necessario.

Immagine dal web

11 maggio 2016

Mise en abyme



Il protocollo, innanzitutto: ricevere il sollecito di ritiro
con il timbro giusto. Si evitino i “non è più tra noi”
mentre sta ancora lì in un sangue sopravvissuto
o nel racconto di come batteva i denti durante il sonno.
E poi il fiore all’occhiello: la perla del bacio sulla fronte
quindi la seduta dei convenuti che spiegano i resti,
il pianto copioso da uno per tutti, tutto per uno
dei bei tomi da riporre nella biblioteca dei vissuti.
Come quei libri che si chiudono, mai completamente aperti,
neppure letti da tanti comunque consunti dai congiunti.

La procedura è quella dell’effetto Droste: il corpo
viene rappresentato in un corpo ben messo situato
nel corpo che amiamo immaginare. Riferiamo
della morte l’espianto di forza da un muscolo universale
che a lui torna, intrinsecamente consapevoli che non potrà
esserci ridata la corda del respiro, quella che tira su,
eppure è ancora lì la nostra mano
che vuole sollevarci.

Morire non è come partire. È certo restare,
come si deve in una classe. Giusto il tempo
perché gli elementi ricompaiano nell’ala
del palazzo immaginario, lasciando il monolocale
alle spalle, quasi che la leggerezza della scomparsa
debba distribuire parti con lo spirito adatto.

Allora, ecco: gli occhi, fino a poco prima manifesti
dello spettacolo, adesso recitano da attori consumati
il sonno sovrumano: è possibile da ora in avanti
interpretare l’uscita di scena con parole sconcertanti 
che amo:“sa quello che io non so, / che questo è tutto
un sogno./ O lo è questo o lo è quello / ancora non ho capito bene.”

Viene facile a galla
la straordinaria somiglianza della morte con il fondale:
sai che su di esso si posa questo mare, ma non puoi stabilire
da fuori se vi camminerai. Intorno, le rive svelano
che alla base dell’acqua c’è tanto di umano da considerare.

Si muore solo localmente, se davvero c'è
lo spazio da considerare.

In corsivo: F.Figliolini - La birra del Paradiso
Immagine dal web


9 maggio 2016

I passeri prendono quota

Immagine dal web


Guardo il becco del passero da dove parte ogni volo.
È così piccolo che neppure il sole vi entra.
Come potrebbe un bacio? Oppure: appartiamoci
leggeri sul gomito così dura meno della nuvola
il timore che piova.

Qualsiasi cosa accada in quel becco
non sono parole vuote,
ma riassunti che lasciano i dettagli in natura.

Sono continui richiami – penso
alle piccole altezze femminili –
ai lucernai tra le foglie,
alla grandiosità del verbo appartiamoci
che non si può dire a chiunque.

Nemmeno a se stessi in un prato a giorno.
Occorrono tante parole per tessere verde e viole:
un senso fuori dal comune
adatto per far nascere qualcosa.

Ma lui schizza improvviso al traliccio,
guadagna quota e resta minuto
un’ora per volta. Saggiamente
coincide al luogo – posto il luogo
abbia l’alta tensione
al pensiero di altri voli.


2 maggio 2016

Detto delle caverne

Immagine dal web


Veniamo al dunque: osservo rapide nubi
ariose, o corte e mosse, sfilacciate, inoltre
il cielo è questo capricorno minaccioso: misture
di basse andature dicono del vento
            che ci lascia a stento.

Gli albori dell’uomo sono nei sangui sparsi    
e altre sinonimie che scorrono ancora; insomma,
siamo venuti con il vezzo di piombare nelle vene,
            violando
il millimetro di confine tra cuore e cuore.

E come può resistere la pelle ai colpi?
           
            Dio viene alle mani solo in buona fede,
dovrebbero saperlo gli inventori del detto.