Oh-o, mi
accorgo di non capire il mondo
(intendo,
per mondo, giovani al sole; in piedi, suppongo).
Il
traffico, dove c’è, usa il clacson, che è più facile
simulare
a voce. Qui tutti danno indicazioni
in una
lingua senza mezze misure, non uno
comunica
informazioni vitali: come dire se
ci hanno abbandonati, disillusi, resi al suolo
perché non si creino ombre fra di noi.
Io
preferisco i segnali di fumo: cerchi soffiati
con la
lingua a stantuffo. Proprio questa mi brucia.
Chi
guarda la posa dei cavi in fibra ottica è l’occhio
del
vecchio Antonio che borbotta: si fa tanto
per dire
progresso, ma il badile urta dove passa
la
domanda: come stai?, e la spezza da farla gracchiare.
Non ci
sono rane sulle sponde dell’Irno. Cemento
e pietra
viva, ben disposta. Le pietre se fossero rane
lascerebbero
questa città (e la lasciano per andare
al mare,
cosa che non fanno le rane). Niente rane,
quindi,
vi dispiace?, il telefono gracchia (la suoneria
somiglia
al badile, dall’altra parte la domanda si spezza).
Una sola
panchina era il polmone di quattro individui;
due,
diventavano lo stadio; tre, le figlie del re
che li
avevano sposati. Qualcun altro gode
di una
pensioncina che appena contiene
dieci
chiamate che non sa fare
dal cellulare
avuto in regalo.
Da chi?
Dai figli, o dai figli dei figli senza rane.
Antonio è
fortunato: è stato legato ad un cane.
E il cane
se lo porta dietro come un gioiello solitario.
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