21 settembre 2016

Quando passeggio nei tuoi silenzi



Quando passeggio nei tuoi silenzi
e passo a passo inseguo suoni che non odo
sguardi che non mi scrutano,
dita che non mi percorrono,
arranco fino alla cima dei miei pensieri
per trovare una eco della tua voce
o l’orma di una vecchia carezza.


Quando passeggio nei tuoi silenzi
tu sei l’inizio e la finedella mia solitudine.



Quando eravamo - Ros&Gil

10 settembre 2016

Un poco per uno






Eravamo il pianeta e sopra io,
e su di me tu il cielo e ogni dio,
quelli scomparsi e gli altri
da venire ancora, e sopra tutto
si reggeva il cosmo intero,
più uno o due pensieri incessanti del tipo:
chi cederà tra l’occhio e l’enorme visione?
l’attenzione di un figlio di che libera noi?
Intanto mi prende la macchia notturna,
una specie di garza a grandezza naturale, 

per lenire tutte le ferite di colui che canta
la sua condizione di starsene al buio

più che all’oscuro. Incide il motivo
che spinge l’orecchio supposto in cuore
a dare alla luce il suo aspetto migliore.
Adesso, e non sempre, gli elementi indicati
sono connessi da un filo di speranza in ascolto.



Gil che ama la notte (elab. Ferdigiordano)

5 settembre 2016

Non fare che passi




E io, Peter, ho viaggiato poco.
Nessuna isola era per me
e nessuna città o paese o albero è un’isola.
Vado a spanne, sempre, e lo spazzolino da denti
non si è mai mosso con fantasia.
Non sono stato altrove se non condotto
da qualcuno. Vado ovunque, certo,
ma solo perché questi luoghi vengono a me
restando lontani.
Di tanto in tanto un’onda porta l’oceano
fino allo scoglio e so che lo scoglio è unico
ma indissolubilmente legato al regno delle brevi maree.
La marea è quella coperta su cui timonavo la luna, tanto
a lungo il mio capitano è stata la notte fuoribordo.
Se allungo il braccio, se rompo l’immobilità, la pigrizia
dell’aria si scuote e c’è vento dentro casa, comunque
non abbastanza perché il mio corpo diventi navicella.
Ma tanto basta al senso e mi trovi in giro,
per quel poco che gonfia la vela, come a prendere
il meglio: passare nel mondo con te,
per sentirmi un chi va là oltre frontiera.


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27 agosto 2016

Soluzioni al risparmio




Un modo per intervenire sull’incubo
è guardare il soffitto. Scomparso di colpo,
viene chiaro in un lampo. È leggero il cielo:
indica che nuvole di oggi comparse dai vapori
di ieri si attraversano a salti, in un attimo elastico,
teso, e poi minuto, fronte dell’uragano
distante, ma come in ogni ansia già
rovescia il cristallino e l’occhio ruota.
Quale trucco metterà in atto il temporale?
Per svelarlo ho dovuto seminare il guanciale.
L’uomo che fui sconta l’abuso
di generi elementari: abbracci e baci.
Era meglio il risparmio del resto?
Ho trovato riparo nell’ironia di Allen
e l’ho diffusa in casa: pagine
nella zuccheriera, nel portaolio,
nell’armadietto in bagno, nei calzini
e nei cassetti come anticarme.


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2 agosto 2016

Similitudini e precedenze




Mio figlio, che all’occorrenza salta agli occhi
come cosa non presente ma da venire in tempo,
ha scalato le date: adesso è nella cordata
degli uomini a motore.


Dici che sono ansioso, fragile di nervi, ma i nervi
sono pistoni a fior di pelle. E inventano gesti come
mani nei capelli, pruriti in ogni senso, echi persi
da decenni: si fa uomo per ora, è partito in tempo.


Mi fido di lui, non della strada che prende.
La strada lo ha inserito nel suo palinsesto
e trasmette la mia angoscia ad alta frequenza.


L’ho perso di vista alla prima curva:
lo precedevo con l’asfalto in mente
per dirgli delle buche, dei dossi, dei freni cirrosi.
Ci vuole fegato
per affrontare il ferodo a mani nude. Temo
i paracarri con le piccole edicole delle tragedie,
dove il tormento ha scelto corpi intonsi
e li lavora con attenzione, fino a portarli in fiori.



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26 luglio 2016

Note a margine




Tocco con mano la risolutezza dell’ombra.
Ne sento il bisogno impellente di attribuirsi forma.
Magari non avveduta, mutevole o di passaggio.
L’ombra non contraddice i vertici, affina l’origine,
cataloga i volumi secondo la biblioteca della luce.
É nota la sua diffusione, potrei dirti, madre,
quanto l’essere nell’aria produca chiarezza
e taluni dettati che ancora ricordo,
mai così netti sulla tua bocca netta:
Matilde era piccola da non avere proiezioni.


Niente attrae più dell’anima semplicemente epoca
in un immenso minuto. Vorrei toccarla con mano
precisa, seguirla a tratti sul mio volto. Accolgo
il suo beneamato riflesso che mi schiaccia ovunque.


Vedete bene che quando dico ombra parlo di luce.
La distinguo dal segno poderoso: sia la voce,
in quest’angolo di corpo che chiamo ricordo,
sia per la data ombra che ancora mi raccoglie.


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15 luglio 2016

In un ancòra




Il polso batte. Me ne accorgo da come cala
la tua mano nel mio tramonto. Non ha più
tempo l’unghia di improvvisarsi graffio.
Il sangue esce con il vestito adatto. Rosso
carminio, sembra un verme indeciso: usa la piega,
nella piega si allunga: quale istinto guida
la sua avventura? Le vene se lo portano via.
Provi piacere se lappo: vorrei stirarti la ruga
restituendole il muscolo elastico del bacio.
Mi manca la forza per venirti davanti, sono sincero.
Le lancette superano il giro organizzato ora,
i tasti convengono, lo so, lo ammetto; scrivo,
è preferibile. Diciamo di sì in un momento
sbagliato, dici di no mentre ti riprendo sull’unghia,
nel sangue frenato. Per adesso godo quest’attimo
in un ancòra tutto è passato quando occorre.


Elab. immagine: ferdigiordano




17 giugno 2016

Per natura dico più tardi



Alla base del pero selvatico sono cadute pere selvatiche.
Nella trappola della maturità abiurano il ramo preferendo
stare nell’erba o, udite udite!, con il negro della terra.
Questa polpa, ovvero questo ventre di zuccheri e acqua,
che avvallano in semi lavorati, ci rende uguali nel solco?

Alla base del pero selvatico giacciono le pere selvatiche.
Come provviste in un modo che pare casuale, confuso,
le formiche più lucide preparano riserve a lungo andare.
Il raccolto è una tregua al lavoro di qualsiasi cammino.
Come quei tizi muniti di fame al mercato, mentre salivano i resti.

Dal profondo cervello della pianta, dalle sue ventose filiformi
– che ventose non sono per l’anomalia del minerale a lasciarsi
attraversare da folate – fu dato l’ordine ai fiori di sbocciare
e farsi nettare dolce con un linguaggio di colpi secchi: “sì”, “no”,
escludendo il “forse”, o “più tardi”, oppure “fa’ come ti dico”.

Alla base del foglio selvatico sono venuto come le pere
a piantarla con tante parole per chiunque,
qualsiasi cosa questo voglia dire.

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8 giugno 2016

Disegnata dal fianco



In una congettura trovo la luce:
per assioma, la notte non dura.
Appaiono sui lecci i sintomi del giorno
e la guaina del sole viene con brividi sereni.
Chiamo congettura ogni poggiatesta
di carne: lei dice che i lunghi capelli sono
causa di calvizie o di solletico – confermo.
Si sposta in cucina con un sonar nel ventre.
Credo resti interdetta quando cerca il bagno.

Non è ancora mattino,
mi aggiusta quasi avessimo traversato la notte
in una cabriolet. Si chiama Rosa, o non risponde.
Un indizio sono le spine: per come carezza
non diresti siano artigli. Non l’ho detto,
però mi attrae il pericolo.

Qualcosa ricordo, forse un gemito
sfuggito dal torpore languido, ma chi è sveglio
spesso esprime un ritardo della notte.
Non farò mai in tempo a raggiungerla.
Non è possibile e, per fortuna, lei mi aspetta.
La dignità, invece, ci prende improvvisamente:
tiriamo il sogno fino al mento, con tenerezza,
tuttavia non è ampio abbastanza come coperta.

Mi piacerebbe
che le voci restassero a letto, invece sono
le prime ad alzarsi. Le voci si alzano
perché i sussurri sono lusinghieri
e di fronte, la luce dà vita ad un fianco.

Immagine dal web


4 giugno 2016

Hydros



Siamo consanguinei dei cirri e attraversiamo continenti
con uguale attitudine a scomparire
in un niente di fatto.
Con la stessa noncuranza dei paralleli
rendiamo la Terra gravida di sopravvivenze.
Non dovremmo, o non circoliamo abbastanza.

Se penso a come precipitano gli atomi e
continuamente producono piani d’appoggio, guardo
alla collina per vedere spuntare colonne di raggi
che rotolano in avanti 
finché l’accerchiamento sarà completo.

L’atomo di H: tutto qui intorno è più grande,
meno frequente, eppure niente di quello che osservo
ha la stessa potenza.

Dio, forse, per questo non si vede.



Immagine da www.link2universe.net

1 giugno 2016

Bellanima



Quando si manifestò il cordoglio del deserto
la pozza era ormai allo stato di fango secco
e gli Angeli, poco meno che bachi,
nel bozzolo alla foce emettevano vapore.
Non c'eri tu, ma tu eri già la duna alzata dal vento.
Già una scia diceva il cammino e già
un respiro di metano raccontava che avresti
posseduto macchine e crisantemi.
Il ghiaccio si faceva continente e tu
fuori dal perimetro della neve eri leggerezza.
Quando la pioggia tornerà sul deserto e la pozza
riaprirà il suo abbeveratoio conteso
un nomade piegherà il lungo collo
alla vista del nuovo frumento. Seguirà il sintomo divino
da cui proviene - brivido di carne benedetta
scossa in ogni tendine - e prenderà per il fieno
almeno un puledro.
Tu sarai nel crine del vento, sarai il crine
e lo zoccolo della tormenta.
Quando - e solo allora - farai del pube una miniera,
verranno santi e diavoli tremendi
ed ognuno vorrà averti nella sua casa di frontiera
ma in nessun caso l'anima, per l'acuto mestiere
di doganiere, cederà di un palmo al tranello della questua.
Sii fiera del riso di oggi, sii fiera del respiro leggero.
Sarai fiera più che l'agnello.


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28 maggio 2016

Della pietra



Prendo una pietra. La prendo in modo che essa si chieda
che mai la sollevi e perché dovrebbe volare sul prato
da un punto all’altro, da una mano al vago.
Prima ero al telefono con il mio cardiologo
e sono rimasto di sasso: stai bene, ha detto, non pensare tanto.

Sento ogni nervo disteso che il pendio ha finora levigato,
vedo nella piccola roccia l’eternità dell’atomo. Immagino
ogni sorta di micromotori nel mio torace. Io so
che un cardiologo non è un’aquila, non spazia tra vette
ma sostiene la mia cattedrale, eppure sento pulsare
la pietra con un leggero affanno. Le dita
la avvolgono come un costato.


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26 maggio 2016

Chiunque busserà alla porta non avrà le tue mani



Eri dietro le mani. Tu entravi, ma prima
le mani ricavavano spazio: la tua aria una nicchia
nella camera e la poltrona subito.
Quella poltrona bassa e consunta era votiva. Seduta,
crollavi da un'altezza celeste. Da una volta
solo tua. Sulla pelle grattata eri santa, ma di più:
madre angusta e minuta, quasi finita.


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19 maggio 2016

Sestennio



Governo le narici tra i tuoi odori, sestennio
e posso dirli indicatori o finestre. In qualche caso, il vento sbava
con l’aria di chi più ne trova e più ne coglie – spiffera all'ingresso,
racconta, del resto.

Non ho il polso del tempo
e mi accorgo che l’orologio si ripete – sarà questo il suo cuore senza cuore? –
pertanto accetto suggerimenti: altri luoghi sento – mai indossati ad esempio –
che lanciano un segno potente: la mondanità decaduta, l’esternazione della pelle,
la manomissione dei capi, la lana sintetica – farà freddo d’ora in avanti,
assioma della neve perenne –, il consorzio di premitura del vino novello.

E sarei io la foglia e tu la terra, Terra?

“Sarò chiaro – fu esplicito il cielo, – fino a settembre.
Poi tirerò in ballo il legno. Il tronco tra le secche bocche,   
le dita inanimate volteggiano in modo adeguato dalla superficie.”
Questo disse a lei, o quel che era Terra, me compreso.
E fu allora che mi divenne noto come sia sottile il cielo
se, pur con mucillagini dense, e scuse, non copre l’universo e altri splendori.

Rimane da comprendere le date, come di residenze, dove portano
i rientri a bere le gocce rimaste nel bicchiere.
Io ne faccio divieti da ricordare, blocchi per disappunti,
giudico un errore dalla ricorrenza.
Quanto mi manca, sia di parola sia di cosa che, è un credito. Chiede
una corsia preferenziale, spera di avanzare per attraversare la notte.
La notte è ormai sonno precipitato, riscossione di tremiti.

Vengono dalle strade che lavorano ai fianchi,
ma se affermo che tra di noi corre l’intesa, si sente preso in giro il sole
per quel pallido sollecito che l’umido mai secca.

Passano profumi ormai fuori di me, e questo indica l’avvento
di scie volubili, che avvolgono la mente, dal pentateuco del corpo,
libro annoso in cui si apprende la profilassi del beneamato,
e della nostra sussistenza,
quasi che le tracce utili siano appannaggio di chi inaugura il calendario
come vi arriva, come cancelli a scuola.

Non si va lontano a furia di stagioni, si va
al limite del possibile. In sostanza,
fa bene il limoneto a liberarsi dei gialli intensi. 

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